Forma e colore
di Roberta Pedrotti
G. Puccini
Turandot
Stemme, Antonenko, Agresta, Tsymbalyuk
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Maestro concertatore e direttore Riccardo Chailly
Regia Nikolaus Lehnhoff
Teatro alla Scala di Milano, maggio 2015
DVD Decca - Rai, 2017, B01N6B6ZON
Sull'onda e sull'esempio quarantennale del Rossini Opera Festival, ormai anche a Parma per Verdi e a Bergamo per Donizetti si sono consolidati progetti di ricerca e qualità che, invece, ancora mancano per Bellini e Puccini. A soccorso di quest'ultimo, se non un festival, è venuto, però, l'impegno di Riccardo Chailly, pucciniano DOC e ricercatore indefesso, per un ciclo pluriennale al Teatro alla Scala.
Lo aveva inaugurato (ma prima di diventarne direttore musicale, Chailly alla Scala aveva già diretto il Trittico) nel maggio del 2015, in coincidenza con l'apertura del l'Expo, una Turandot cui sarebbero seguite la prima versione di Madama Butterfly e di Manon Lescaut, una Fanciulla del West con battute inedite o quasi, e ora, per il 7 dicembre 2019, si attende Tosca. In ciascuna queste produzioni la curiosità filologica sul laboratorio compositivo pucciniano, tutto un teatralissimo work in progress di rifiniture e ripensamenti, ha svolto - e, presumiamo, svolgerà - un ruolo di primo piano. E, rispetto a titoli che l'autore poté accompagnare al debutto e in riprese, l'incompiuta Turandot non è certo da meno, come dimostra qui in modo evidente la scelta del finale completato da Luciano Berio.
Più d'uno ricorderà i dibattiti sulla commissione da parte di Ricordi di un nuovo finale, sulla questione dei diritti scaduti sul lavoro di Alfano e freschissimi per quello di Berio. Di tanti conti, resta la musica per fortuna, ed è musica bellissima. Di più, il finale di Berio esplora un'altra faccia della medaglia dell'ultimo enigma di Turandot, ribalta la trionfale affermazione dell'eros virile di Calaf che infrange irruente il velo ghiacciato della Principessa. Qui sentiamo ancora, dopo quell'ultima nota dell'ottavino lasciata da Puccini, un profumo nell'aria, ma è quello di Liù, e non sgela tanto Turandot (già scossa dalla sconfitta negli enigmi, già turbata dalla forza che l'amore ha posto nel petto della schiava), quanto proprio Calaf. Il baldanzoso attacco "Principessa di morte" è preceduto da una serie di incespicanti "Principessa" che lo vedono per la prima volta sgomento, insicuro, commosso. Così stemperato, il canto d'amore al "Fiore mattutino" suona dolce e sincero più che seducente e sensuale. Non vediamo una conquista, ma un incontro, vediamo due principi opposti e quasi astratti di maschile e femminile, fuoco e ghiaccio, eros e thanatos che scoprono e raggiungono insieme l'amore e l'umanità lasciando dissolvere il lontananza il rutilante meccanismo della fiaba. Berio sembra pensare al noto appunto sul Tristano sviluppa una chiave di lettura che punta dritto a quel bivio, a quel nodo su cui lavorava Puccini prima di morire. Non è dato sapere come l'avrebbe sciolto il sor Giacomo, ma questa è un'ipotesi quanto mai coerente e suggestiva e trova in Chailly un interprete ideale. Il suo lucido sguardo contemporaneo si allontana da ogni sfavillante retorica, da ogni appariscente esotismo, da ogni maniera ma anche da tentazioni espressionistiche troppo marcate. È, questa, una Turandot netta, distillata, ma pur sempre all'italiana, ben dosata nei colori, debitamente sfumata, cantabile, anche, ma non meno esatta, agile e fluida nelle sue geometrie. Fa, allora, perfettamente il paio con lo spettacolo di Lenhohff, che alla chiarezza della narrazione e a una bella cura attoriale (efficaci i primi piani sull'arroganza di Calaf nel secondo atto in relazione al suo cambiamento nel terzo) unisce l'astrazione delle forme e di colori puri: bianco, nero, blu, rosso, giallo. Nessuna concessione alla chincaglieria esotica: l'essenza di Turandot, come di ogni capolavoro, non è nella decorazione ma nella sostanza. Peraltro, il regista non sovrappone simbologie e sembra piuttosto concentrarsi su una resa visiva della musica in simbiosi con Chailly: essenzialità di forme, guizzi di pathos, di sarcasmo, di amaro straniamento, nettezza cromatica vivificata da un gioco di luci e geometrie fino alla dissoluzione minimalista delle due ombre degli innamorati. Quell'umanità sacrificata all'inizio in un Principe di Persia nudo fra maschere alienate, ora trionfa intima e vera mentre l'eco del coro esulta lontana.
Bene, nel complesso, anche il cast: se Maria Agresta è una delle migliori Liù possibili per senso della parola, dolcezza, incisività, controllo vocale, Nina Stemme è una Turandot sui generis, alla maniera della sua Brünhilde. Il soprano svedese non s'impone per acuti d'acciaio, ma la florida importanza del mezzo va di pari passo con l'intelligenza dell'interprete. Anche quando l'idioma non le sia familiare come in Wagner o Strauss, sa disegnare un personaggio ben definito, non fa della Principessa di gelo un'implacabile macchina da decibel, ma dispiega tutta l'ampiezza del canto, la cui autorevolezza si tinge di umanità. Aleksandrs Antonenko sarebbe meno interessante, per l'emissione di per sé un po' legnosa, ma funziona bene nel prestare il suo vigore alle sollecitazioni di Chailly senza cedere a esibizionismi di facile effetto. Il suo Calaf risulta così, alla fine, un personaggio ben compiuto.
Ambigui clown in bianco e nero, i ministri di Angelo Veccia, Blagoj Nacoski e Roberto Covatta convincono appieno, così come il Timur di Alexander Tsymabalyuk, il mandarino di Gianluca Breda, il Principe di Persia di Azer RZA Zada (che già vediamo avviato a parti più significative). Soprattutto, merita la consueta menzione d'onore l'Altoum eccellente di Carlo Bosi. Ottima, del pari, la prova di tutti i complessi scaligeri.
La regia video di Patrizia Carmine restituisce assai bene l'evoluzione del rapporto fra Turandot e Calaf, anche se talvolta, nelle scene di massa, ci pare un po' troppo movimentata nell'inseguire il particolare a discapito dell'immagine complessiva.