L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La prima volta di Gaetano

di Roberta Pedrotti

G. Donizetti

Enrico di Borgogna

Bonitatibus, Ganassi, Tittoto, Segkapane, Castoro

direttore Alessandro De Marchi

regista Silvia Paoli

Academia Montis Regalis

Coro Donizetti Opera

Festival Donizetti Opera, Teatro Sociale di Bergamo, novembre/dicembre 2018

DVD Dynamic, 37833, 2019

Approfondisci leggendo la recensione dello stesso spettacolo -> Bergamo, Enrico di Borgogna, 23/11/2018

Nel nuovo, felice corso del Festival Donizetti di Bergamo c'è anche l'accordo per l'uscita in DVD e CD di molti - speriamo tutti - gli spettacoli. Una documentazione oggi come oggi indispensabile, sia per la rarità dei titoli, sia per il lavoro di ricerca, storica e interpretativa, che un festival ha il dovere di svolgere intorno ad essi.

Enrico di Borgogna è un perfetto esempio della missione di un festival monografico come quello orobico. Al pari di Demetro e Polibio, primo lavoro teatrale rossiniano, valorizzato a Pesaro sia nel cast sia nell'allestimento (leggi la recensione della ripresa del 2019), così il debutto sulle scene operistiche di Donizetti è stato servito al meglio nella sua Bergamo: compagnia di canto di raffinati specialisti, con alcune presenza d'autentico lusso, bacchetta filologa, di Alessandro De Marchi, che ricerca sonorità d'epoca e adotta un diapason più basso del consueto (all'antica, si direbbe, pur tenendo conto della grande variabilità dell'accordatura rispetto allo standard odierno), una regia, di Silvia Paoli, che gioca con spirito e intelligenza, senza stuccare, su un manierismo d'epoca e sul teatro nel teatro, rievocando la storia tribolata della prima veneziana del 1818.

L'opera è senz'altro ben scritta, si adegua ai modelli in voga, all'esempio del maestro Mayr, all'imperante moda rossiniana, ma fa valere, oltre alla solidità degli studi, anche la personalità di un esordiente che saprà, di lì a poco, fare la storia. Certo, il libretto di Bartolomeo Merelli (da mentore di Donizetti ora, di Verdi fra qualche anno, possiamo ben dire che meriti più come impresario che come drammaturgo e poeta) è non poco farraginoso, quasi ansioso di accumulare topoi fra agnizioni, usurpatori tiranni, rivalità amorose. Eppure, non manca qualche guizzo di spirito più arguto là dove, anche fra luoghi comuni, emerge il ruolo modernissimo di Gilberto, consigliere politico del tiranno Guido incaricato di informarsi dell'umore dei sudditi e pronto a manipolare i risultati dell'indagine secondo convenienza. E se mai qualcuno avesse nutrito dubbi, fra uno Sparafucile e un Oroveso, sulla verve comica di Luca Tittoto, eccoli spazzati via da una prova d'autentico autoironico istrione, pronto a entrare nel gioco di scatole cinesi metateatrali e ad incarnare un cantante venale, subdolo e narciso chiamato a vestire la maschera buffa dell'opportunista attendente del malvagio. La voce, poi, è sempre una meraviglia di morbidezza, omogeneità, elasticità e plasticità nel testo. Non sono da meno le due donne principali, anzi, la primadonna e il primo musico, essendo l'eponimo Enrico un contralto en travesti, qui doppiamente camuffato, perché s'immagina scomparsa l'artista designata e convocata in tutta fretta una sartina, prima intimidita e poi via via innamorata della magia teatrale. Anna Bonitatibus è bravissima nel miscelare tenero impaccio, autentico afflato belcantista da eroe contralto del primo Ottocento (anche testualmente la sua sortita strizza l'occhio a Tancredi), aromi romantici, stupore, incanto, malinconia. La padronanza dello stile si risolve in assoluta souplesse e culmina in viva emozione con quel rondò finale, così denso d'affetti, in cui la sartina/Enrico continua a crederci mentre coro, colleghi e macchinisti, tutti interessati solo alla gloria personale e al contante se ne vanno lasciando la scena buia e vuota. Sonia Ganassi presta a Elisa, nominalmente soprano ma in realtà comoda per chi frequenta i repertori di Colbran e Falcon, tutta l'esperienza di una grande belcantista, ma soprattutto l'autoironia nel giocare alla primadonna, nel mettere i bastoni fra le ruote a una scalpitante ancella (la spiritosa Federica Vitali), nell'ammiccare fra realtà e finzione. 

I due giovani tenori scontano qualche acerbità, ma s'inseriscono bene nello spettacolo e mettono in luce virtù promettenti. Francesco Castoro, padre putativo di Enrico, ha voce bella, luminosa e facile, solo un po' nasale nella salita all'acuto; non è elettrizzante, ma ha fraseggio limpidissimo. Levy Segkapane, va in crescendo, divo donnaiolo dietro le quinte e perfido tiranno nella (doppia) finzione, e convince soprattutto nella tesissima aria finale. Da ricordare, inoltre, Lorenzo Barbieri e Matteo Mezzaro, che ben completano il cast.

Le riprese del Teatro Sociale della Città alta, suggestivo nella sua struttura lignea rimasta nuda e rustica, sembrano sottolineare una continuità con quel palcoscenico antico rievocato fra affetto e ironia nel nome del debutto teatrale di un giovanotto bergamasco destinato a grandi cose.

Una piccola perla che l'appassionato di belcanto non potrà non conoscere.


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