L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Dal rogo all’immortalità

 di Francesco Lora

La traviata di Verdi secondo Carsen è ancora una volta spettacolo di riferimento al Teatro La Fenice, con aumentato valore simbolico nel ventennale del rogo e durante l’attuale dibattito politico. Ottime la prova direttoriale di Rustioni e quella interpretativa della Dotto.

VENEZIA, 29 gennaio 2016 – Sono passati vent’anni dalla notte del rogo del Teatro La Fenice. La sera dell’anniversario non c’è commemorazione: c’è invece il teatro ricostruito, affollato, riunito intorno alla più celebre opera che lì ebbe il battesimo, La traviata, nello stesso allestimento che dodici anni fa ha riportato il melodramma su quel palcoscenico. Sette recite fino all’11 febbraio e una serie di studiate coincidenze con le quali non si vuol celebrare altro che la normalità. Di straordinario rimane, del resto, lo spettacolo con regìa di Robert Carsen, scene e costumi di Patrick Kinmonth, coreografia di Philippe Giraudeau e luci di Carsen stesso e Peter van Praet.

La Fenice fa bene a riprenderlo quasi in ogni stagione, programmando decine di recite per volta: è la lettura del capolavoro verdiano tuttora più prodiga di bellezza visiva, di pregnanza concettuale, di chiarezza espositiva. Questa stessa rivista non ha perso occasione di recensirla più di una volta, e meno urgente si è fatto ora il compito di raccontare, descrivere e decodificare. Basti sottolineare un tratto: in dodici anni lo spettacolo non solo ha conservato ogni suo aspetto e impatto, pur nell’avvicendamento di interpreti differenti, ma già allora spingeva l’analisi a una profondità che soprattutto oggi fa riflettere, commuovere e indignare, mentre l’Italia nobilita e ridicolizza sé stessa nel dibattito sulle unioni civili, a seconda delle posizioni di dignità o ideologia, e mentre sulla scena si vede dipanata con tanto cuore verità sospiro crudezza una storia esemplare di amore condannato dal perbenismo.

Un alleato prezioso dell’analisi di Carsen si trova nel concertatore che, giusto la sera prima, aveva invece deluso nel dirigere l’altro Verdi dello Stiffelio. Fin dal Preludio all’atto I, la bacchetta di Daniele Rustioni dimostra studio attento e appassionato, inserendo qui e là benvenuti rubati e trasalimenti, dolorose tensioni e convulsioni festose: il canto è sempre sostenuto con complicità senza tuttavia abdicare dalla logica della partitura; le prime parti dell’orchestra veneziana godono di cornice e campo; l’energia del fraseggio, senza rischio d’arroganza, contagia anche la banda di palcoscenico, da molto tempo non udita così travolgente ed entusiastica nel festino iniziale in casa Valéry: una nota di colore, tra le tante, che lascia il segno e merita la memoria. Spiace solo che Rustioni erediti e confermi, forse suo malgrado, una lista di tagli obsoleti e penosi: cade la seconda strofa del cantabile di Violetta nell’atto I (struttura di romanza determinata anche dall’articolazione in strofe) e cadono le riprese delle cabalette di Germont figlio e padre (rendendo così sproporzionato l’accostamento ai rispettivi cantabili e tempi di mezzo).

Nel ruolo protagonistico si torna ad ammirare il soprano Francesca Dotto, che ormai è la titolare in carica dello spettacolo carseniano nonché la più assidua Violetta tra le interpreti italiane. A questo giro, la voce si presenta con smalto meno lucente, volume meno copioso e ornamentazione meno scorrevole rispetto ad altre volte; il Mi bemolle stesso della cabaletta è più prova di coraggio che di bravura; ma il personaggio è viepiù approfondito, lungo la via della naturalezza, della semplicità e della giovinezza, senz’ombra dei calligrafismi da primadonna che potrebbero guastare un così vivido ritratto: è comunicata la forza d’animo e la fragilità corporea che innervano, nell’«Addio, del passato» e in tutta la successiva marcia verso la morte, una realizzazione di non esibito riferimento.

Più svelto è il discorso intorno ai Germont. Alfredo è il tenore Matteo Lippi, che all’esatto contrario di Stefano Secco nel contiguo Stiffelio sprizza carattere e comunicativa grazie alla luminosità del timbro e alla fragranza dell’involo; ma la tecnica è da rifinire, il fraseggio è da meditare, il personaggio rimane – come spesso si sospetta – un bamboccione indegno della statura psicologica della compagna. Giorgio è invece Elia Fabbian, baritono a sua volta dotato di bel materiale esente da vilanie e anch’egli tuttavia così generico nel carattere da far svettare oltre misura l’autorevolezza morale di Violetta nonché la premura espressiva del soprano. A posto il comprimariato, e spesso più nella recitazione che nella vocalità, con la Flora Bervoix di Elisabetta Martorana, l’Annina di Sabrina Vianello, il Gastone di Iorio Zennaro, il Barone Douphol di Armando Gabba, il Dottor Grenvil di Mattia Denti e il Marchese d’Obigny di William Corrò.


 

 

 
 
 

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