Casa di bambola
di Roberta Pedrotti
Debutto sottotono per Il barbiere di Siviglia al Comunale di Bologna nell'allestimento coprodotto con la Greek National Opera di Atene. Il cast si fregia di quarti di nobiltà rossiniana, ma l'esito è al di sotto delle aspettative, anche a causa della concertazione dispersiva di Carlo Tenan e di una regia di Francesco Micheli che non mette pienamente a frutti l'intuizione di partenza.
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BOLOGNA, 5 maggio 2016 - Rosina è un'adolescente bloccata in un mondo infantile: vive in una cameretta confetto fra vezzi e giocattoli, come una bambola ormai cresciuta cui quello spazio va, irrimediabilmente, stretto. Attraverso il primo amore vive il passaggio difficile dall'immaturità alla maturità, verso la consapevolezza e l'autonomia, trasformandosi in ragazza con la pistola nel momento in cui non può gestire una situazione sproporzionata alla sua impaziente ansia di crescita. Finirà per passare dalla prigione rosa della bambina a quella dorata della moglie, oggetto di conquista prima del tutore e poi del Conte in un'unione che sapremo assai sventurata per la ragazza che sognava la libertà e piomberà nelle braccia di un principe azzurro inevitabilmente sbagliato.
È una visione decisamente cupa, nonostante i colori sgargianti, quella che il regista Francesco Micheli vuol proporre della vicenda della protagonista femminile del Barbiere di Siviglia, né dispiacerebbero di per sé uno sguardo dark e un retrogusto amaro nella commedia se l'anima dello spettacolo non rischiasse di esaurirsi in tre immagini identificate con il superiore estro sartoriale di Gianluca Falaschi: la nuvola rosazzurra (come non pensare all'abito cangiante nel finale della Bella addormentata nel bosco disneyana?) della gonna nel primo atto, la mise yeyé del secondo, l'oro barocco con coroncina di carta del finale. Intorno a questo, non molto oltre ai costumi che citano i Beatles e Marylin Manson, i musicarelli e Almodovar (rivolte e identità generazionali a confronto), e a una parete di led luminosi che all'inizio ci si illude poter essere la gelosia che rinchiude Rosina, ma altro non sarà che una parete di sfolgoranti led luminosi a disegnare cuori e parole stancando, alla lunga, un tantino l'occhio (quando nel secondo atto si fa da parte, le rétine ringraziano).
Tutto il primo quadro, prima che Rosina faccia la sua apparizione, procede quasi per inerzia, come se il motore della commedia fosse un diesel ingolfato spinto su una blanda discesa non senza fatica. Anche quando entriamo in casa di Don Bartolo l'idea sembra rimanere troppo esile per reggere da sola tutta l'azione, che raramente diverte, come se l'indubbia cura della recitazione non riuscisse sempre a poggiare sulla solida struttura di un'idea iscritta in un disegno che abbracci ogni aspetto dell'opera. C'è un'intuizione che balena qua e là, ma circoscritta in sé, senza tramutarsi completamente in un pensiero portante, in quel senso del gioco costante di tensioni e distensioni teatrali che fa vivere la commedia sulla scena.
E così è nella direzione di Carlo Tenan, il quale sembra perdersi in dettagli calligrafici anche elegantissimi, in pregevoli preziosismi come l'uso del sistro originale, inutili però se la struttura non è salda, i concertati si arruffano e gli attacchi non sono netti. Così ne fa le spese anche un cast d'esperienza eterogenea ma di comune e riconosciuta militanza rossiniana, tutti ascoltati, alla prima, al di sotto delle aspettative.
Gertrude Righetti Giorgi, prima Rosina assoluta duecento anni fa, fu protagonista pochi mesi dopo del debutto petroniano dell'opera e in quest'occasione si appropriò del rondò di Almaviva anticipando quel che a breve sarebbe avvenuto con La Cenerentola. Non si azzarda a tanto la giovane Aya Wakizono nel raccoglierne il testimone con musicalità elegante ed encomiabile dedizione scenica al personaggio. Purtroppo la vocalità appare di caratura ridotta anche per una sala come quella del Comunale, sia per smalto e proiezione, sia per mordente ed estensione.
A Julian Kim la voce non manca e si conferma baritono affidabile, ma fatica a essere un Figaro convincente fino in fondo, vuoi per la scarsa dimestichezza con il linguaggio rossiniano e belcantista in genere, vuoi soprattutto (ma le due cose sono strettamente correlate) per una pronuncia chiara ma non impeccabile e naturale nell'articolazione dei fonemi italiani.
Anche René Barbera, Almaviva privato del Rondò, è un cantante vocalmente solido e dotato, dalla sua ha una frequentazione più assidua con questo repertorio, ma non riesce a spiccare il volo anche per una musicalità piuttosto generica, lontana dalla finezza di lettura che Rossini esige, non solo dal punto di vista espressivo. Questo è senza dubbio, invece, il punto di forza di Paolo Bordogna, Bartolo attentissimo alle pieghe dei recitativi ma anch'egli vocalmente sottotono, fioco in basso e più teso e meno ordinato del solito (lui che si troverebbe più a suo agio come baritono brillante!) in alto.
Luca Tittoto fa valere bella voce e teatralità, ma, se evita le trappole di vezzi datati, il suo Don Basilio talora cede alla tentazione di far la voce grossa perdendo in posizione e qualità d'emissione.
Laura Cherici, ormai, non ha null'altro da offrire a Berta che la sua esperienza di palcoscenico; Gabriele Ribis e Raffaele Costantini sono un Fiorello e un Ufficiale più cupi e seriosi del consueto.
Alla fine, comunque, se si escludono alcune non unanimi disapprovazioni rivolte al team registico (oltre ai citati Micheli e Falaschi, si ricordino almeno Nicolas Bovey per scene e luci, e Panagiotos Tomaras per i video), ci sono applausi per tutti. Con l'augurio che, magari, sciolta qualche tensione del debutto, le cose possano migliorare con le repliche.
foto Rocco Casaluci