Il battesimo di Francesca
di Francesco Lora
Mai eseguita per scherzo di contingenze, la Francesca da Rimini di Mercadante è stata rappresentata per la prima volta al Festival della Valle d’Itria: al battesimo del capolavoro concorrono i grandi nomi di Luisi e Pizzi, e la rivelazione delle belcantiste Bonilla e Wakizono.
MARTINA FRANCA, 30 luglio 2016 – La storia della Francesca da Rimini di Saverio Mercadante è tanto lunga quanto breve. Grande opera di rappresentanza composta per l’inaugurazione della stagione 1831 al Teatro del Príncipe di Madrid, doveva costituire una calata d’asso per il compositore italiano lì insediato con un contratto a lungo termine; avvelenato il contesto per la malalingua della primadonna, mentre già si iniziavano le prove, questi fece tuttavia fagotto e si portò la partitura in Italia. Saltato l’allestimento spagnolo, l’opera fu ridestinata alla Scala di Milano, per la successiva stagione di carnevale: la stessa della creazione della Norma di Bellini e dell’Ugo, conte di Parigi di Donizetti, con la celebre compagnia di canto che annoverava Giuditta Pasta, Giulia Grisi, Domenico Donzelli e Vincenzo Negrini. I problemi con la figura della primadonna non erano però finiti: la Francesca da Rimini si sarebbe ben attagliata alla nuova e migliore compagnia, a patto che la Pasta assumesse la parte dell’amoroso Paolo e cedesse alla Grisi quella del titolo; ma a quell’altezza biografica la Pasta non intendeva più investire in ruoli maschili: dopo essere stata un grande Tancredi e un grande Arsace, li aveva tolti dal repertorio, e la Norma stessa nasceva dall’aborto di un Ernani dove ella avrebbe dovuto assumere la parte del titolo; soprattutto, la diva non poteva ammettere il recupero di una partitura non composta per lei, spianando nel contempo il protagonismo a una collega meno blasonata. E la storia, per quest’opera troppo esigente per essere rappresentata in un teatro non di primissimo piano, è finita qui: centottantacinque anni di muta attesa per la partitura autografa oggi collocata nel Museo internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna.
Poi è arrivato il Festival della Valle d’Itria, con uno dei suoi colpi da maestro, a sistemare i conti con la storia dei capolavori: ed ecco, trionfante di ovazioni ed esaurita fino all’ultimo posto, la prima rappresentazione assoluta della Francesca da Rimini, il 30 luglio, nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca (repliche il 2 e il 4 agosto). Fresca di stampa l’edizione critica della partitura, curata da Elisabetta Pasquini, l’opera è stata tradotta da segni a suoni poggiando sulle spalle forti del concertatore Fabio Luisi. Direttore musicale del festival, ne è l’entusiastico nerbo artistico, posponendo ogni trattamento economico – modesto: la Martina Franca che ama la musica non è la passerella massmediatica di Salisburgo – a una dedizione instancabile e totale. La Francesca da Rimini fissa una prova del nove della sua consapevolezza stilistica e della sua sollecitudine direttoriale: quasi tre ore e mezza di musica, organico orchestrale ampio oltre il consueto, sostegno a parti vocali dalla scrittura impervia. Alla testa dell’Orchestra internazionale d’Italia, Luisi ha per ogni momento dell’opera un fraseggio ispirato, una sferzata ritmica, una ragione drammaturgica; fa tremare nelle scene di massa ove sferragliano tornei e guerre, e tiene col fiato in sospeso nella scena della lettura del libro galeotto; concorda con i cantanti variazioni di elevato equilibrismo e scuola impeccabile; riconosce le influenze rossiniane – dalla Zelmira in particolare – ma ha per primo obiettivo la rivelazione del linguaggio mercadantiano, non ancora restituito alle abitudini d’ascolto dello studioso e dell’appassionato.
Il secondo padrino di battesimo dell’opera è Pier Luigi Pizzi nella trina veste di regista, scenografo e costumista. Lo si era avvistato a Martina Franca lo scorso anno, quando scrutava misterioso il campo di lavoro; e quest’anno lo si vede sbaragliare la piazza con una strategia artistica che non ha l’eguale. Nessuno ha messo in piedi, negli ultimi decenni, scene più sfarzose di quella da lui disegnate ed erette, più dotte nell’indagine architettonica e più ricche di riferimenti artistici. A Martina Franca, egli si fa bastare il nudo muro di pietra bianca sul fondo della scena: su di esso e sul vuoto spazio del tavolato, enormi drappi di seta finissima e nera si agitano al vento notturno e decidono dei tagli di luce sull’azione: in modo imprevedibile illustrano insieme l’odio e il lutto, il tormento interiore e il ritiro dal mondo. Con l’astuzia dei mezzi teatrali si sposa l’indirizzo dato dal festival negli ultimi anni: l’investimento massimo e inedito nelle arti del costume e della coreografia. Nella seconda, Pizzi si avvale della collaborazione di Gheorghe Iancu e, con un gruppo di danzatori, riempie dinamicamente la scena. Nei costumi e nel gesto che li accompagna, a loro volta, dispiega l’erudizione geniale: escluso l’uniforme tableau di ambientazione gotica, egli attinge da Piero della Francesca, Paolo Uccello, Nicolò dell’Arca, Sebastiano del Piombo e Felice Giani, ossia dall’immagine artistica dell’Italia centrale e segnatamente della Romagna tra Rinascimento e Neoclassicismo, mentre il fluttuare stesso dei tessuti sui corpi passa il testimone tra un ispiratore e l’altro.
Sfida gettata e vinta nella formazione della compagnia: non i potentati odierni del belcanto, bensì giovani con debutto recentissimo e – lo si può ben dire da oggi – con prospettive accattivanti che faranno spesso tornare col pensiero alla loro Francesca da Rimini. Il soprano Leonor Bonilla impressiona nella parte della protagonista: alla fragilità psicologica del personaggio, e ai suoi tratti di risolutezza, ella fa corrispondere un’organizzazione vocale d’acciaio, con modulazione dai filati siderali, vocalizzazione energica e smagliante, registro acuto e sopracuto sfrontato, presenza scenica così fascinosa, disinvolta e pregnante da poter osare passi di danza e farsi prendere per un elemento di punta del corpo di ballo. Ripensando poi al Barbiere di Siviglia bolognese dello scorso maggio – mediocre per lei e pessimo in generale [leggi la recensione] – non pare vero che la Rosina di Aya Wakizono possa essersi tramutata nel Paolo che qui si ammira: superbo smalto mediosopranile che cerca e tiene l’omogeneità da un capo all’altro dell’estensione, coloratura di magnifico capriccio virtuosistico e scorrevolezza, porgere non ancora trascinante ma sempre forte di studio ed eleganza, encomiabile intesa con la primadonna e armonizzazione dei pregi comuni o complementari. Altrettanto impegnativa è la parte tenorile e antagonistica di Lanciotto, con i suoi temibili scarti di registro e un’ornamentazione degna del Rossini napoletano: Mert Süngü potrà col tempo esonerarsi da qualche fibrosità o asprezza, ma già ora domina le difficoltà che lo attendono al varco, con una qualità timbrica e una prestanza espressiva degne di tutta attenzione. Imponente nella figura, nel volume e nel colore, Antonio Di Matteo tiene in equilibrio la parte di Guido tra autorevolezza e amorevolezza paterna, e si conferma come uno tra i più dotati bassi della sua generazione [leggi l'intervista]. Immacolato il comprimariato, che riesce a farsi largo anche nelle scene di massa e nei brevi interventi specifici assegnati: il mezzosoprano Larisa Martinez come Isaura e Ivan Ayon Rivas come Guelfo. Lo spettacolo si potrà presto ritrovare in CD e DVD, in attesa delle riprese che merita: per Mercadante negletto, da oggi, la strada è in discesa.