L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

die walkuere a salzburg

1967-2017: giubileo con Die Walküre

 di Francesco Lora

Il Festival di Pasqua di Salisburgo celebra il suo primo mezzo secolo con l’opera che lo inaugurò ai tempi di Karajan. Affidata alla Nemirova la ricreazione del vecchio allestimento, Thielemann e la Staatskapelle di Dresda danno luogo al capolavoro di esegesi musicale, grazie anche alla speciale intesa con Harteros e Kowaljow.

SALISBURGO, 8 aprile 2017 – Guai a confonderlo con quello estivo, che ha una costola in quello di Pentecoste: il Festival di Pasqua di Salisburgo non solo si colloca in un differente periodo dell’anno, ma è anche del tutto indipendente nell’organizzazione degli uffici, nell’articolazione del programma, negli artisti di riferimento nonché nel pubblico più fedele. Quest’anno ha compiuto il primo mezzo secolo dalla sua creazione, resa memorabile dalla storica Walküre di Herbert von Karajan, monarca assoluto nei ruoli di concertatore, regista, fondatore e impresario. Obiettivo del grande direttore era plasmare i suoi Berliner Philharmoniker, allora orchestra d’esperienza soltanto concertistica, ai testi e agli spazi del repertorio operistico, con una particolare attenzione alle partiture di Richard Wagner. Scelse la città natale con il suo Grosses Festspielhaus, saturandone la già strabocchevole attività musicale; rischiò in proprio e riuscì nella folle impresa che prosegue ancora oggi: un compatto festival che eccede di pochi giorni la settimana santa, suddiviso in due cicli speculari di identici spettacoli, caratterizzato da un titolo operistico e da alcuni concerti attinenti. Qualità artistica, ci s’intende, in tutte maiuscole e a ritmi così serrati da togliere il fiato, ubriacare, turbare, rendere difficile il ritorno al mondo.

Se poi si dà un giubileo, è facile immaginare come il Festival di Pasqua sia pronto a fare i conti con sé stesso, a ripercorrere la propria storia e a monumentalizzare il programma. Né si respira forzatura o artefazione se dal 2013 i Berliner hanno rinunciato al tradizionale impegno salisburghese e ceduto alla Staatskapelle di Dresda il ruolo protagonistico nella rassegna. Die Walküre mancava da sole otto edizioni, e cioè da quando Simon Rattle la diresse nel corso di un intero Ring des Nibelungen (2007-10); con significato evidente, quest’anno non solo l’opera in sé è stata riproposta, l’8 e il 17 aprile, ma per le due recite è anche stato ricreato l’impianto scenico del 1967. Intorno all’opera, il ciclo ordinario di concerti con la Staatskapelle: il 9 e il 15 aprile, con Franz Welser-Möst per la Sinfonia n. 9 di Mahler; il 10 e il 14, con Myung-Whun Chung e il Chor des Bayerischen Rundfunks per il Requiem di Fauré e la Sinfonia n. 3 di Saint-Saëns; l’11 e il 16, con Daniil Trifonov e Christian Thielemann per il Concerto n. 21 di Mozart e la Sinfonia n. 4 di Bruckner. Accanto ai concerti ordinari, quelli straordinari: il 9 aprile, con Thielemann e i Wiener Philharmoniker per la Sinfonia n. 9 di Beethoven, e il 12 aprile con Rattle e i Berliner per la Sinfonia n. 6 di Mahler. E ad altri spettacoli ancora si accennerà in queste pagine.

Il primo resoconto spetta frattanto alle recite della Walküre, con l’irrecuperabile regìa di Karajan reinventata da Vera Nemirova, con le scene originali di Günther Schneider-Siemssen ricostruite da Jens Kilian e con costumi nuovi disegnati in stile da quest’ultimo. Nel 1967 si trattava di una lettura teatrale e iconografica d’avanguardia, calzante al proposito karajaniano di liricizzare, alleggerire e simbolizzare una partitura tràdita con esasperato turgore musicale e orpelli iconografici obsoleti. Oggi la sua giusta rievocazione è esempio d’innocua fedeltà alla didascalia; il discorso drammaturgico scorre senza alcuna licenza registica né fra troppi rovelli psicologici, e lascia tuttora ammirare la parte visiva, con il colossale frassino che alle radici forma la casa stessa di Hunding o con la vorticosa struttura ellittica che costituisce la vetta di raduno delle valchirie. L’operazione ha invece un tallone d’Achille nel ricorso ai video, estranei alla scenotecnica di Karajan, e nelle luci progettate da Olaf Freese: con i loro fasci troppo intensi, queste tolgono alle strutture sul palcoscenico la sfumata indefinitezza spaziale che determinava l’atmosfera stessa dello spettacolo; e utile a sincerarsene è la concomitante mostra a tema, ricca di bozzetti e fotografie, allestita negli spazi del Salzburg Museum (Neue Residenz).

Cuore dello spettacolo sono nondimeno la direzione di Thielemann e il materiale della Staatskapelle. Ecco la più matura esegesi data da questo specialista massimo della Walküre: si coglie il perfezionamento successivo alle recite di Bayreuth (2006-10) e Vienna (2011) nonché di Dresda (2016). La conoscenza della partitura si è fatta viepiù capillare, con l’effetto di abolire ogni gerarchia tra i singoli passi e di tenere la fluviale arcata drammatica e musicale costantemente tesa, analizzata, rivelata. I già rari compiacimenti calligrafici, cui al contrario si consegnava Rattle, in Thielemann cedono ora a un fraseggio sempre più deciso, graffiante, concretamente meditato su fonetica e semantica della parola oltre che sulle ragioni dell’enunciato melodico. Non stupisce che la compagnia di canto, preparata con maniacale puntigliosità, raddoppi in quest’ottica risorse e mire: è effetto consueto del lavoro con Thielemann. Ma si esce frastornati da una Staatskapelle che pulsa rovente o dolente attraverso una coerente miriade di pesi e colori, trasfigurando con inaudita spontaneità i suoi bagliori timbrici e le sue sete fraseologiche: l’improvviso e spaventoso scoppio della macchina degli ottoni, tenuto virtuosisticamente in serbo per l’atto III, dimostra a ritroso la profondità del discorso pur nella dosata e astuta parsimonia di mezzi.

Persino al Festival di Pasqua di Salisburgo dev’essere stato arduo riunire una compagnia di specialisti del canto wagneriano, se si considera la concorrenza fatta negli stessi giorni, a suon di Parsifal e Ring, dalla Staatsoper di Berlino, dalla vicina Deutsche Oper e dalla Staatsoper di Vienna: dappertutto balza all’orecchio chi sia il campione e chi il ripiego. Qui si impone Anja Harteros, al debutto nella parte di Sieglinde: senza mai spingersi oltre il corpo di soprano lirico, e senza mai temere il varco della corposa strumentazione, ella dà luogo a un personaggio di singolare freschezza giovanile, animato da umanissimi fremiti, apparentabile per dolce varietà psicologica all’Eva dei Meistersinger. Piace che alla “prima” fosse nel pubblico anche la principale testimone storica di questo percorso interpretativo: Gundula Janowitz, Sieglinde nel 1967, seduta accanto a Christa Ludwig, rispettiva Fricka. Degno di ogni nota positiva è anche il Wotan di Vitalij Kowaljow: nella Walküre che inaugurò la stagione 2010/11 della Scala il basso era entrato dalla porta di servizio (in un primo tempo era stato annunciato René Pape, forte di ben più ampia fama e magnetica attrattiva); ora egli vanta esattezza di pronuncia, autorità d’accento, pienezza timbrica e – da basso qual è – un’insolenza non meno che baritonale nell’ascesa al registro acuto.

Tramontata l’euforia intorno alla Nina Stemme del 2010, sembra oggi mancare una Brünnhilde di infallibile riferimento. A Salisburgo si è puntato su Anja Kampe, finora assiduamente impiegata come Sieglinde (anche in una lussuosa incisione del 2012, accanto alla Stemme stessa e a Jonas Kaufmann). La scabrosa scrittura vocale e l’alta statura drammatica del personaggio la trovano impegnata al massimo; la personalità d’interprete rimane nondimeno ordinaria e cauta, intimorita dai Do sopracuti che puntualmente stridono, e coglie per converso buoni momenti là ove la tessitura rimane centrale e la mente può concentrarsi sul porgere. Un azzardo è invece confidare nel sessantatreenne Peter Seiffert per la parte di Siegmund, sostenuta oggi con smalto consunto ed emissione affannosa; la grandiosa gettata sinfonica di Thielemann all’invocazione «Wälse! Wälse! Wo ist dein Schwert?», per esempio, diviene così un impietoso luogo d’ostensione del declino, impossibile da sormontare con voce ferma, fiato bastante e sicura intonazione. Promossa da Erda a Fricka lo scorso anno a Dresda, Christa Mayer esibisce tutta l’energia d’accento utile a innescare scintille nel dialogo con Wotan. Inedito lo Hunding di Georg Zeppenfeld, con il suo canto di nobile scuola e tratti di pensosa, orgogliosa introversione.

foto Forster


 

 

 
 
 

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