Un Fidelio di rimpianta oleografia
di Francesco Lora
Lo storico allestimento con regìa di Schenk è tuttora un punto di riferimento per il pubblico della Staatsoper di Vienna. Nell’ultima ripresa si sono fatte valere voci d’alta estrazione, malgrado la datata ispirazione wagneriana, e la direzione per contro moderna di Cornelius Meister.
VIENNA, 2 giugno 2017 – In ogni stagione della Staatsoper di Vienna si contano titoli a decine, tra i quali circa un sesto sono presentati in nuovi allestimenti. V’è da temere di questi ultimi soprattutto quando destinati a sostituire un allestimento storico: uno di quelli, cioè, che hanno fatto la storia del massimo teatro austriaco dal dopoguerra a oggi, e a colpi non di riprese sparse ma di repliche in multipli di cento, sino a formare, con una sensibilità drammatica d’altri tempi, l’esperienza quotidiana di spettatori d’ogni generazione. È il caso del Fidelio di Beethoven varato nel 1970 e ancora in servizio: la Staatsoper ne annuncia ormai la regìa e le scene non come firmate ma come tratte da Otto Schenk e Günther Schneider-Siemssen, mentre per i costumi depone la troppa prudenza e indica il nome di Leo Bei.
Lo spettacolo rimane nondimeno un capolavoro di rimpianta oleografia, di chiarezza narrativa e di strategia espressiva. Poiché la drammaturgia si attiene non altro che alle parole, alle didascalie e alla musica, ogni ponderata deroga diviene preziosa e morde il cuore con forza tanto maggiore anche nel dettaglio minuto, come quando alla fine dell’atto I si vede il sospiro pudico e impotente di Leonore dietro la porta che si chiude alle spalle di Don Pizarro. E nell’attualità del Regietheater, con le sue trasposizioni spazio-temporali e la sua corsa al sottotesto peregrino e al simbolo inesplorato, tanto più turba la non mediata ambientazione nella squallida concretezza di un carcere da cartolina: tutto quello che v’è da conoscere sulla libertà perduta sta lì sotto gli occhi, crudo e tangibile, più informativo poiché senza eccesso.
Nelle quattro recite del 24 maggio - 2 giugno, l’obsolescenza ha dunque riguardato soltanto la riconduzione del Fidelio alla poetica musicale wagneriana secondo la valutazione novecentesca dei calibri vocali. Poco importa se nel 1814 la Vienna di Beethoven stava per risvegliarsi all’alba di Rossini: qui si ascoltano ancora una Leonore che crede d’essere Brünnhilde, un Florestan che crede d’essere Siegfried, un Pizarro che crede d’essere Wotan e un Rocco che crede d’essere Hagen. È un travisamento duro a morire e fossilizzato soprattutto alla Staatsoper. Ma se ne dà conto senza stracciarsi le vesti, anche perché l’estrazione della compagnia di canto è alta, a partire dalla Leonore di Camilla Nylund, con il suo timbro luminoso, la sua tempra d’acciaio e la volontà di dare tutta sé stessa senza tuttavia strafare.
Albert Dohmen, come Don Pizarro, vanta tuttora una grandeur vocale e un carisma scenico senza epigoni, mentre Günther Groissböck, il bel quarantenne atteso all’uscita degli artisti da un’osannante congrega di pensionate fedelissime, ammalia per collezione di armonici – anche nel parlato dei dialoghi – ma forza un poco ove la profonda tessitura sconfini sopra il rigo. Generosità di volume ma emissione non ben ferma (e gestualità contadina) nel Florestan di Peter Seiffert; più cordialità illuministica e fraterna che autorevolezza ministeriale nel Don Fernando di Boaz Daniel; tanta vivacità attoriale quanta esattezza musicale nel Joaquino di Jörg Schneider; riassestamento di mezzi viepiù palese nella Marzelline di Chen Reiss, la quale sta sostituendo alla volatilità da soubrette un più corposo e maturo lirismo.
È infine un privilegio trovare sul podio Cornelius Meister, classe 1980, direttore musicale dell’ORF Radio-Symphonieorchester e forse il più talentuoso giovane maestro tedesco: non guasta l’inquadramento di un artista che in Italia è meno noto di quanto meritato. In questo Fidelio sono rimaste a margine le qualità di concertatore: l’orchestra della Staatsoper concede prove solo di rado. Sono emerse invece quelle di direttore che, senza consegne verbali preventive e con spiccate doti comunicative, sa cavare ciò che vuole dalle file: raffinatezze estenuate nel dialogo tra i legni del Quartetto, virtuosistico scoppiare di masse nella Rachenarie di Pizarro, moderno gioco di tempi che sorprende persino nell’inflazionata ouverture Leonore n. 3, inserita all’uso di Mahler come colossale intermezzo tra gli ultimi due quadri.
foto Wiener Staatsoper GmbH / Michael Pöhn.