Un Rosenkavalier di conferme e sorprese
di Francesco Lora
Ancora una ripresa viennese del capolavoro di Richard Strauss nel sempreverde spettacolo di Otto Schenk: un’imprevedibile Linda Watson dà luogo a una Marescialla assai personale, mentre qualche delusione viene da due specialisti massimi delle rispettive parti, Peter Rose come Barone Ochs e Sophie Koch come Octavian.
VIENNA, 3 giugno 2017 – Non teme la vecchiaia il più classico tra gli allestimenti del Rosenkavalier di Richard Strauss, già lodato in queste pagine [leggi la recensione]: regìa di Otto Schenk, scene di Rudolf Heinrich, costumi di Erni Kniepert, 376 recite appena compiute alla Staatsoper di Vienna, dal varo nel 1968 alle quattro degli scorsi 23 maggio - 3 giugno. Da esse viene un aggiornamento sulla parte musicale, riassortita tra interpreti riconfermati in perpetuo e altri piovuti a scongiurare l’assuefazione. Un caso emblematico: Angela Denoke, da vent’anni Marescialla assidua alla Staatsoper, a questo giro ha rinunciato per motivi di salute. L’ha sostituita un’imprevedibile Linda Watson, wagneriana e straussiana da soma, nota in città come Venus nel Tannhäuser, Brünnhilde nel Ring, Isolde nel Tristan e protagonista nell’Elektra: corpo da valchiria, canto d’acciaio, prerequisiti agli antipodi di quelli canonici da nobildonna settecentesca. Eppure s’è avuta da lei chiara dimostrazione di una parte amorevolmente preparata, nella consapevolezza dell’estraneità alle abituali frequentazioni di repertorio. Ne è venuta fuori una Marescialla con un’insolita possanza di suono ma attenta a onorare il pianissimo, maestosa nella presenza fisica e altrettanto nell’incedere canoro, matronale come la Maria Teresa imperatrice degli ultimi ritratti: il tutto con un esito d’ammirevole originalità e coerenza con sé stessa.
Opposto è il caso di Sophie Koch, senza l’Octavian della quale sembra oggi impossibile allestire un solo Rosenkavalier: ovunque, e anche qui, eccola ripetere un’interpretazione di tenuta indubbia, ma sempre più caricata d’ammicchi e mossette, e da lì sempre più pigra nell’esplorare gli aspetti intimi dell’adolescente. Analogo il caso di Peter Rose, a sua volta il più assiduo Barone Ochs della scena internazionale: straripante di gradassa simpatia, in altre occasioni lo si è tuttavia trovato più esuberante nel canto e più partecipe alla commedia. Ancor più perigliosa gli è dunque stata la vicinanza, nel Fidelio simultaneamente dato alla Staatsoper, [leggi la recensione] di quel gagliardo Günther Groissböck che è l’altro grande Ochs del momento e del futuro, e che – da madrelingua della campagna austriaca – possiede meglio di lui l’idiomatismo vernacolo ed espressivo, importante a maggior ragione al cospetto del pubblico viennese.
Innocua è stata l’ulteriore sostituzione, come Sophie nell’ultima recita, di Daniela Fally con Chein Reiss, specialista comprovata ma, come già detto circa la sua Marzelline nel Fidelio, ora in corso d’ispessimento vocale e di più lirica caratterizzazione. Jochen Schmeckenbecher come Faninal, Regine Hangler come Marianne, Thomas Ebenstein come Valzacchi, Ulrike Helzel come Annina e Alexandru Moisiuc come Commissario di Polizia hanno formato una squadra d’interpreti consumati nei rispettivi ruoli di caratteristi. Sulle scene mitteleuropee andrebbero invece investite migliori risorse nella parte del Cantante: come di norma, essa è stata qui assegnata a un onesto comprimario della compagnia stabile, Norbert Ernst, dal quale è infruttuoso reclamare la necessaria fragranza di fraseggio e l’auspicata avvenenza di timbro. Il direttore era una delle più referenziate bacchette-utilité della Staatsoper, Sascha Goetzel. Egli ha innanzitutto assimilato le ferree tradizioni esecutive viennesi: sa assecondarle e incoraggiarle; non ha dunque esibito primariamente genio personale, né lo potrebbe fare in mancanza di un autentico ciclo di prove. Ma sotto la sua guida la sprezzante orchestra della Staatsoper s’è impegnata, infiammata, divertita, sino a rivendicare orgogliosa la propria identità culturale e luccicare infine dell’oro dei Wiener Philharmoniker. Il Rosenkavalier non avrebbe potuto sentirsi più a casa di così.
foto Wiener Staatsoper GmbH / Michael Pöhn.