Teche tra le tenebre
di Andrea R. G. Pedrotti
Nella chiusura della stagione lirica bresciana, emergono, con l'accortezza della concertazione di Pietro Rizzo, le prove di Francesco Landolfi e, soprattutto, Marco Ciaponi al debutto, rispettivamente, nei ruoli di Rigoletto e del Duca di Mantova. Più interlocutorie le prove delle interpreti femminili e la regia di Elena Barbalich.
BRESCIA, 2 dicembre 2017 - Come fu per La traviata lo scorso anno [leggi la recensione], è un’altra opera della trilogia popolare verdiana a chiudere il cartellone del Teatro Grande di Brescia: per il 2017 è toccato a Rigoletto.
La regia di Elena Barbalich ha palesato alcune idee interessanti, ma disperse in un contesto poco lineare e, alla conclusione, drammaturgicamente assai poco compiuto.
Il Duca abita in mezzo ad alcune teche di vetro contenenti delle donne completamente svestite e dall’estetica, si suppone volutamente, variabile. Anche la contessa di Ceprano entra in scena in uno scrigno trasparente, ma sdraiata, apparentemente con una maschera sul volto, quasi fosse un cadavere imbalsamato. I costumi paiono effettivamente cinquecenteschi, ma con alcune libertà del costumista, Tommaso Lagattola (autore anche della scarna scenografia), come delle gorgiere brillanti e dorate, oltre ad alcune torce elettriche nelle mani e sui copricapi dei cortigiani.
L’abitazione del gobbo presenta un arredamento essenziale e Gilda, al centro di essa, appare affetta da totale depersonalizzazione; condizione possibile per la giovane che non aveva alcuna possibilità di uscire di casa, se non per la Messa, e che, per il resto delle sue giornate, era stata tenuta segregata dal gobbo genitore. Questi (per dar ragione a Verdi) avrà certamente nutrito un grande amore paterno nei suoi confronti, benché (ragionando centosessantasei anni dopo la prima rappresentazione) il suo appia più come un amore morboso e feticista, al limite dell’incestuoso, considerato che Rigoletto riteneva Gilda l’ultimo ricordo della defunta sposa, l’unica persona che, a suo dire, l’aveva veramente amato. Nel 1851 era amore paterno, ora sarebbe, giustamente, affare da Servizi Sociali.
Pochi altri spunti nel primo atto, come pochi se ne sono riscontrati nel secondo. Si segnala il racconto dei cortigiani al Duca che narrano il rapimento di Gilda interpretando una recita per ripercorrere la loro azione truffaldina, con il paggio a far la parte di Gilda. La giovane viene portata innanzi all’aristocratico mantovano con una calza sulla testa, che il Duca le sfila dal capo, nel momento in cui intona la frase “conosca alfin chi sono!”
Null’altro nel secondo atto, con una scena buia, pochi gradini presso il proscenio, alcuni teli a comporre una stanza centrale (senza porte, ma con delle tende scorrevoli) e un sostanziale immobilismo dei protagonisti.
Aumenta l’oscurità visiva nel terzo atto, che si apre in mezzo al fumo: i teli ora compongono tre pareti della taverna di Sparafucile e null’altro orna il palcoscenico. Maddalena indossa una lunga gonna e una giacca di pelle: non appare affatto amorosa con il Duca, piuttosto dal loro rapporto traspare una sessualità assai brutale (da parte di entrambi), cosa possibile, visto lo stile di vita della sorella di Sparafucile. Risulta meno spiegabile l’apparire di Gilda in abiti sadomaso: pantaloni di pelle attillatissimi, giubbotto del medesimo materiale e altrettanto aderente, tacchi vertiginosi (non propriamente tipici di una “veste virile”) e zeppe agli stivali neri e lucidi. Evidentemente Gilda, oltre a essere affetta da depersonalizzazione, dopo aver scoperto il vizio della carne nell’atto precedente aveva aggiunto alla condizione del suo animo anche la perversione e la parafilia. Questo impatto visivo stona un po’, considerato che si sta facendo uccidere per amore.
Gilda ferita a morte viene avvolta in un sacco ancora di pelle nera portato in proscenio per il finale e alle spalle di Rigoletto ricompaiono le teche con le nudità femminili viste nel primo atto.
Tecnicamente corretta la concertazione di Pietro Rizzo, che deve far fronte a un numero fin troppo esiguo di professori dell’orchestra dei Pomeriggi Musicali e a una qualità degli stessi inferiore a quella ascoltata nei titoli precedenti. Il concertatore è bravo a tenere sempre in pugno la situazione agendo più di fioretto che di sciabola. Anche in rapporto a una compagnia di cantanti dal volume non imponente si impegna a garantire l’equilibrio fra buca e palcoscenico con risultati discreti. Le sezioni sono ben amalgamate e, sostanzialmente, la sua bacchetta risulta funzionale, concedendosi apprezzabili aumenti di intensità quando non siano impegnati i solisti. Unico neo palese della direzione di Pietro Rizzo è una dinamica slentata all’eccesso in “Sì, vendetta, tremenda vendetta”, tanto da non far apparire quale stretta il numero musicale conclusivo del secondo atto.
Pregevole il Rigoletto di Francesco Landolfi, che ben fraseggia e palesa una buona vocalità, specialmente nei centri e nei gravi, nel primo atto, dando libero sfogo all’acuto nel secondo e, soprattutto, nel terzo. Il suo canto appare ancora da raffinare nell’emissione, ma possiamo definire la sua prestazione corretta e, sostanzialmente, positiva. Scenicamente segue diligentemente le indicazioni registiche, sia nel comportarsi da buffone nel primo quadro, sia nel prosieguo dell’opera. Da notare come, in questa produzione, Rigoletto abbia una gobba posticcia che il cantante svestiva ogni qual volta un afflato di dignità pervadeva il suo animo.
Migliore del cast il Duca di Mantova di Marco Ciaponi: la tecnica è corretta e gli acuti sono luminosi. Musicalmente si dimostra preparato, offrendo buone prospettive per il futuro, anche considerando che negli anni è prevedibile l'inspessimento di una voce che, per colore, rispecchia la giovane età del tenore.
Lucrezia Drei (Gilda) appare impegnata in un ruolo non adatto e troppo pesante per il suo mezzo vocale. Il soprano manca di morbidezza e il timbro non è necessariamente avvolgente, anche per una certa monocromia del canto. Discreto (ma sicuramente non memorabile) il Mi bemolle conclusivo del secondo atto, ma è nel terzo che la Drei soccombe innanzi all’orchestrazione verdiana, che, nonostante la cura del concertatore, copre sistematicamente il suo canto. Buono il suo fraseggio nel primo atto, scolastico nel resto dell’opera.
Imbarazzante la Maddalena di Katarina Giotas, alla continua ricerca di un registro grave irraggiungibile per una cantante che, al contrario, dimostra una certa comodità nell’acuto, tanto da far sorgere dubbi sulla sua effettiva natura mezzosopranile. L’emissione è costantemente nasale, cacofonica e al limite del declamato, nella cornice di una prestazione gravemente insufficiente. Buona la prova scenica, ma non basta.
Corretto lo Sparafucile di Alessio Cacciamani, mentre desta molte perplessità il Monterone di Matteo Mollica.
Completavano il cast Nadiya Petrenko (Giovanna), Giuseppe Distefano (Matteo Borsa), Guido Dazzini (Marullo), Giuseppe Zema (il conte di Ceprano), Anna Bessi (la contessa di Ceprano), Maria Luisa bertoli (un paggio) e Giacomo Archetti (un Usciere di corte).
Oltre ai già citati Elena Barbalich (regista) e Tommaso Lagattola (scene e costumi), ricordiamo Fiammetta Baldisserri (luci) e Danilo Rubeca (aiuto regista e movimenti coreografici).
Funzionale il coro Operalombardia, diretto Massimo Fiocchi Malaspina.
foto Alessia Santambrogio