La vera Signora dalle Camelie
di Andrea R. G. Pedrotti
Intelligente e ricca di riferimenti alla realtà storica, al romanzo e al dramma di Dumas, la regia di Alice Rohrwacher per La traviata al Teatro Grande di Brescia. Smagliante protagonista e interprete finissima è Mihaela Marcu, che condivide il successo con l'Alfredo di Antonio Gandia, lodevole per gusto e impeto, e il pregevole Germont di Marcello Rosiello. Sul podio Francesco Lanzillotta combina un saldo e pragmatico controllo con una raffinata lettura musicale.
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“La persona che mi è servita da modello per l'eroina del romanzo e del dramma La Dame aux camélias si chiamava Alphonsine Plessis, dal quale nome ella aveva composto quello più armonioso e più elevato di Marie Duplessis”. Così, nel 1867, Alexandre Dumas fils raccontava in prima persona ai lettori quale fu l'ispirazione per il suo romanzo più celebre. Non smentiva con queste parole le prime righe del libro dove asseriva che non fosse possibile “creare personaggi se non dopo aver studiato a lungo gli uomini”, poiché questo poteva essere vero per le persone comuni, ma Alphonsine Plessis non fu una persona comune. Ancora oggi, a distanza di centosessantanove anni la ricordiamo e ci commoviamo per le sue vicende d'amore e morte.
Nessun regista, nessun commediografo o musicista ha mai potuto resistere al fascino di quella sventurata ragazza della Normandia. Un'altra citazione ci è d'obbligo, questa volta dalle parole di Jules Janin: “Eh, sì, Marie Duplessis non era una duchessa, ma credo doveva essere davvero bella e affascinante, lei è nata al fondo della scala, per averla potuta salire, con passo leggero, fin così in alto, già dall'età di diciotto anni”. Un passo leggero e un'eleganza, dietro i quali, raccontano i coevi, si celavano un cuore e un'intelligenza superiori al suo mestiere e che si manifestavano nell'intensità felina dello sguardo della giovane.
Molto di questo si è potuto riscontrare nella regia della debuttante (per quanto riguarda il teatro lirico) Alice Rohrwacher. Violetta è assisa su un letto a due piazze che pensa a sé e alla sua esistenza fin dal preludio. Sopra di essa un ricco lampadario di cristallo e uno sfarzoso abito dorato. Alphonsine Plessis fece carriera nel suo mondo, vivendo dapprima d'accattonaggio, da Grisette e, infine, morendo da Lorette. Dovette trascorrere tutta la sua esistenza celando il suo cuore dietro lo sfarzo del conformismo borghese. La protagonista ha un respiro affannoso, ma diviene sorridente allo scattare del ciack, quasi fosse su un set, costretta a interpretare un ruolo diverso da se stessa. Questa fu l'effettiva vita di colei che ispirò Violetta Valery. In tutto il primo atto è presente questa antitesi dell'animo della giovane, che cede a colui che sa sincerarsi discretamente della sua salute e parlarle con il cuore. Questo accadde e Alphonsine Plessis si sarebbe sacrificata per Franz Liszt, un uomo che, come ricordò ancora una volta Jules Janin, “sapeva parlare alle donne”.
Interessante l'idea di non inserire alcuna pausa fra secondo e terzo atto. L'abito che Violetta indossava in principio dell'opera sta in una fossa, scavata sotto la stanza che fu il suo ingresso in scena. Quella stanza è il cabinet de toilette, l'alcova del peccato della prostituta, o, più semplicemente il camerino dove l'attrice riflette riguardo la sua solitudine.
È una scena di morte, non di gioia campagnola, ma (per chi abbia letto il romanzo), non può che evocare il VI capitolo, con la riesumazione della salma di Marguerite Gautier e l'insistenza, quasi morbosa nel descrivere il degrado precoce in cui il corpo che fu oggetto di desiderio di tanti uomini andava inesorabilmente disfacendosi.
Un altro aspetto interessante è la scelta di collegare l'insulto di Alfredo all'epilogo dell'esistenza di Violetta. Mentre ella si trova riversa a terra, su uno schermo scorrono le immagini di una bimba che gioca fra i fiori e decide di appuntarsene alcuni alla chioma, anche questo un richiamo al testo di Dumas, con Alphonsine, Marie, Marguerite o Violetta che sia, a cercar di recuperare quella spensieratezza che l'infanzia non le aveva concesso. Il finale vero e proprio, invece, è una rappresentazione della realtà e non della creazione di uno scrittore. Violetta muore sola, nello stesso spazio dove aveva vissuto successo, splendore e perdizione, sacerdotessa del piacere, profetessa d'amore. Più semplicemente prostituta. Muore su una panca, senza che nessuno possa abbracciarla, come morì Alphonsine Plessis, in un sottoscala di Montmartre, all'alba del 3 febbraio 1847, abbandonata ancora una volta, ma non più villanella borghese come nacque, bensì contessa, la contessa de Perregaux.
Non è facile rendere un personaggio di tale intensità, ma la sorte, mai casuale, ha voltuto che a vestire i panni di Violetta fosse il soprano rumeno (colpevolmente non citato sul programma di sala) Mihaela Marcu. In più occasioni la cantante aveva raccontato come la sua passione per l'opera fosse nata proprio vedendo (ancora una volta per provvisa sorte) La traviata alla televisione [leggi l'intervista]. Nella sua interpretazione abbiamo ritrovato l'emozione che permea le pagine di Dumas. Abile attrice, rende, ancor prima di emettere fiato, la dicotomia dell'animo di Violetta, che non abbandonerà mai. La Marcu è perfetta negli atteggiamenti, capace di rendere l'eleganza e l'impertinenza dei sourires demi-moqueurs (sorrisi quasi di scherno), tipici dell'atteggiamento della Plessis, impreziosendo il fraseggio con l'espressione del demi-monde parigino che fu. Nel corso dell'aria “Ah fors'è lui che l'anima” manifesta i tumulti del cuore di Violetta, chiudendo la cabaletta con un preciso Mib, secondo tradizione. Il capolavoro interpretativo della Marcu, tuttavia, è nel secondo e nel terzo atto. È spensierata nella vita di campagna, ma in lei si cela la consapevolezza di una fine che aveva fatto di tutto per di allontanare. Nella scena a casa di Flora impersona al meglio l'eleganza della figura della cortigiana parigina, ormai irrigidita, quasi la morte fosse già innanzi a lei. È commovente la sua interpretazione (riversa in una posizione alquanto disagevole) di “Alfredo, Alfredo, di questo core”, durante il quale palesa la policromia di un canto sfumato e dall'eccellente emissione, arricchita dalla pastosità del timbro. Il terzo atto è, tuttavia, per lei il migliore: straordinaria nell'eseguire un “Addio del passato” integrale, con scelte di fraseggio commuoventi, come far morire la nota delicatamente su “accoglila, oh Dio”, per poi sfumare con dolcezza e passione su “or tutto finì”. Meravigliosi anche l'impeto e l'irruenza (sempre ordinata e mai scoposta) del suo intenso “Gran Dio! Morir si giovine” e indimenticabile il suo saper porgere la frase (cantata, finalmente) nell'esalare l'ultimo respiro, con fine musicalità.
Bene anche tutto il resto del cast, a partire dall'Alfredo di Antonio Gandia. Il tenore mette in luce uno squillo rimarchevole e un bell'impeto interpretativo. Bravo nella gestione dei fiati si fa apprezzare nel corso di tutta l'opera, specialmente nei duetti e nelle scene d'assieme di secondo e terzo atto. L'aria “De' miei bollenti spiriti” è eseguita con gusto e senza sbavature.
Molto bravo il Giorgio Germont di Marcello Rosiello, anche considerato che dei tre protagonisti egli era l'unico a non avere un doppio per il secondo cast. I registri sono omogenei e il fiato è ben controllato. Come per Gandia lo squillo è importante e il personaggio risulta riuscito, anche in considerazione del fresco debutto presso La Fenice di Venezia [leggi la recensione].
Flora Bervoix era la brava Daniela Innamorati, la quale, in questa regia, eredita l'abito di Violetta, un po' a prenderne il posto nella società parigina, come già fece il personaggio di Olympe nei confronti di Marguerite Gautier.
Bene anche i ruoli di contorno, con Giuseppe Distefano (Gastone). Davide Fersini (Il Barone Douphol), Matteo Mollica (Il Marchese D'Obigny), Shi Zong (Il Dottor Grenvil), Alessandro Mundula (Giuseppe), Pietro de Fino (Domestico di Flora) e il commissionario di Victor Andrini.
Gran merito per questo successo va al direttore d'orchestra, Francesco Lanzillotta, il quale riesce a mantenere saldamente una linea musicale e un bell'equilibrio fra le sezioni di un organico sicuramente di qualità non eccelsa. La carenza di archi in buca suggerisce una lettura meno impetuosa, ma sempre credibile, con il concertatore a valorizzare le caratteristiche dei solisti sul palcoscenico nelle parti in cui il canto è più scoperto, non potendo aumentare di troppo i volumi negli altri momenti della partitura per non mettere a repentaglio l'omogeneità del suono dell'orchestra dei Pomeriggi musicali di Milano.
Non entusiasma il coro Operalombardia, diretto da Diego Maccagnola, poco preciso e sovente disomogeneo, forse anche a causa delle poche prove a disposizione, infatti ricordiamo che la produzione aveva preso il via da Reggio Emilia, con altre maestranze, mutate a partire dalle recite di Como di fine novembre.
Le scene erano di Federica Parolini, i costumi di Vera Pierantoni Giua, il disegno luci di Roberto Tarasco, i movimenti coreografici di Valentina Marini. L'aiuto regista era Danilo Rubeca, mentre l'assistente alle scene Giuliana Rienzi. La banda di palcoscenico era quella del Teatro Sociale di Como As.Li.Co.
foto tratte dalle recite con entrambe le interpreti: Mihaela Marcu (bionda) e Claudia Pavone (mora)