Romanticismo senza confini
di Alberto Ponti
Con un programma tutto tedesco si chiude la stagione dell'OSN Rai
TORINO, 15 giugno 2017 - In una storia della musica che fa riferimento ai soli vertici assoluti, secondo il giudizio inappellabile e spietato del tempo, compositori come Heinrich Marschner (1795-1861) e Max Bruch (1838-1920) faranno sempre fatica a trovare una collocazione nel repertorio delle grandi orchestre in giro per il mondo. Autori importanti da un punto di vista nazionale, spesso citati in relazione ai giganti della propria epoca, su cui non mancarono di esercitare suggestioni anche evidenti, dotati di un mestiere, nel senso più alto del termine, formidabile, pagano entrambi la mancanza di quella genialità che è l'unico biglietto valido per salire sul treno degli immortali.
Prendiamo ad esempio, del primo, l'ouverture dall'opera Hans Heiling (1833), eseguita giovedì 15 giugno in apertura del quarto e ultimo appuntamento del Festival di Primavera dell'Orchestra Sinfonica Nazionale. Le 27 misure del Larghetto, con uno splendido tema del corno che pare una citazione ante litteram di un celebre passo della Sinfonia dal nuovo mondo di Dvořák, spalancano uno sguardo sognante su un romanticismo alla Hoffmann fatto di fitte selve, incontri notturni ed apparizioni soprannaturali, ma il successivo Allegro passionato rompe l'incanto appena sbocciato, girando intorno a idee musicali assai convenzionali e, sia pur con maestria, sviluppate in modo prevedibile. Il risultato è un'arte gradevole e, sotto la bacchetta del bravissimo ed esuberante Marc Albrecht, direttore stabile dell'Opera Nazionale Olandese, a tratti pure trascinante ma incapace di reggere il confronto con i più anziani Weber o Cherubini. L'imminente irruzione di Wagner l'avrebbe fatta sembrare invecchiata di cent'anni.
Allo stesso modo, della copiosa produzione di Max Bruch oggi, al di fuori della Germania, sopravvive molto poco, con l'unica eccezione del Concerto n. 1 in sol minore op. 26 per violino e orchestra (1864/68), fin dalla nascita cavallo di battaglia di tutti i grandi solisti. La pagina ha i suoi punti di forza nell'originalità del movimento di apertura, un Allegro moderato di impronta assai libera e rapsodica, nella felicissima ispirazione melodica del celebre Adagio e nell'animato ed energico finale, di cui si ricorderà Brahms nel suo Concerto op. 77. La lettura del giovanissimo (e in verità parecchio impomatato) Daniel Lozakovich, nato nel 2001 in Svezia ma già conteso dalle massime platee internazionali, si rivela assai levigata e curata nel timbro, sempre accattivante e impeccabile da riuscire quasi lezioso, con qualche cedimento nell'ultimo tempo, dove occorrerebbe un tratto più graffiante negli unici spazi che Bruch, su consiglio di Joseph Joachim, concesse a un certo virtuosismo. I margini di crescita sono comunque altissimi e se Lozakovich saprà sviluppare personalità e profondità di visione pari alla tecnica potrebbe essere un nome su cui puntare nel prossimo futuro, come pare di intravedere anche dall'Allemanda tratta dalla seconda partita in re minore di Bach, regalata come encore all'entusiasta pubblico subalpino.
Le eccellenti capacità di concertatore di Albrecht emergono con chiarezza ancora maggiore nella Sinfonia n. 4 in re minore op. 120 (1841/53), capolavoro di Robert Schumann (1810-1856) dalla genesi complessa e travagliata, pubblicato nella versione definitiva ben dodici anni dopo i primi abbozzi. Unica tra le composizioni orchestrali dell'autore a trasmettere in modo perfetto e incessante il romantico anelito all'infinito così presente in tante sue opere pianistiche, ma anche la struggente impossibilità di conquistare tale meta, la sinfonia dimostra lungo tutti i quattro movimenti una stupefacente elaborazione tematica, a partire da una ridotta cellula melodica, che la annovera tra i tentativi più riusciti di assimilazione e superamento della lezione beethoveniana per una generazione letteralmente ossessionata dal confronto con il maestro di Bonn.
Albrecht richiede tempi sostenuti, scatenandosi in un autentico balletto sul podio, ma la rapidità dell'incedere non penalizza mai il suono, rotondo e pulito in ogni sezione, con un bilanciamento mirabile tra archi e fiati nei tempi veloci. Superate con sicurezza fuori dal comune le ultime note del Presto conclusivo (la dissonanza sol/la di flauti, oboi e viole a dieci battute dalla fine, dopo la folle corsa di quartine di crome richiede, prima di risolversi sulla tonica, una tenuta fisica notevole per non tramutarsi in un fastidioso stridio) al direttore non rimane che essere inondato dalle ovazioni più travolgenti. Con queste note trionfali ha termine la lunga stagione 2016/2017 dell'Orchestra Sinfonica Nazionale ma, uscendo dalla sala, a risuonare ancora dentro di noi è la melodia dell'oboe che aveva aperto la breve Romanza, vertice della poesia di Schumann, sogno ad occhi aperti troppo presto svanito.