Addio, sognante vita...
di Roberta Pedrotti
La seconda compagnia della Bohème al Comunale di Bologna conferma l'eccezionale profondità di un allestimento che rimarrà memorabile grazie alla lettura condivisa di Graham Vick e Michele Mariotti, grazie a due cast che letteralmente vivono sul palcoscenico. Così si realizza il principio verdiano così ben sviluppato da Puccini di inventare il vero.
Leggi la recensione della prima con Sicilia, Demuro, Torosyan, Alaimo: Bologna, La bohème, 19/01/2018
BOLOGNA, 23 gennaio - La grandezza di uno spettacolo come questo inaugurale della stagione del Comunale di Bologna consiste - anche - nella capacità di inventare il vero, di creare un mondo in perfetto equilibrio fra realismo e astrazione, fra dettaglio e allusione. In quel margine tanto studiato da apparire del tutto spontaneo fra detto e non detto, non solo il pubblico può sentirsi attivamente coinvolto e portare un po' di sé nell'opera, ma anche l'alternanza delle due compagnie rivela diverse sfumature che arricchiscono la lettura senza smussarne forza e identità. Ritroviamo il Benoit/Alcindoro di Bruno Lazzaretti, lontano mille miglia dalla macchietta e perciò irresistibile archetipo di pensionato urbano con qualche soldo da parte e la pretesa di rifarsi della timidezza giovanile. Ritroviamo in Colline il giovanottone serio e introverso pronto al gioco ma anche a mantenere un minimo di decoro domestico e in Schaunard l'adorabile amico capace sempre di un sorriso e di un gesto premuroso, entrambi vispi e veri nell'immedesimazione totale di Evgeny Stavinsky e Andrea Vincenzo Bonsignore. Ritroviamo però anche una diversa sfumatura nei rapporti, nell'amore e nel dolore, nella reazione di fronte alla morte. Basta che, alla morte di Mimì, il Marcello di Sergio Vitale lasci la scena con un passo più lento rispetto a Nicola Alaimo, che la Musetta di Ruth Iniesta raccolga uscendo con mano rapace e occhio cupido più di quanto non facesse Hasmik Torosyan le banconote lasciatele da Colline su uno scatolone.
Basta davvero poco e abbiamo il rovescio della medaglia, la conferma che La bohème è vera e proprio per questo non univoca, è la somma d'infiniti piani di lettura, possibilità, chiaroscuri. Di fronte alla morte si può fuggire disperati, ma anche intimoriti, o raggelarsi nel rifiuto ai limiti dell'indifferenza: è tutto parte del sentire umano, è tutto contenuto nella crudeltà universale degli ultimi accordi. Nulla, certo, si appiattisce nella bidimensionalità, nel prevedibile, nel superficiale, ma viene dalla profondità della parola e della musica, non si sovrappone a essa. Non abbiamo buoni sentimenti, miele o fiele, abbiamo personaggi che sono persone, nel bene e nel male, nei pregi, nei difetti, nelle contraddizioni, nelle maschere e nella sincerità. Vitale, allora, declina la disillusione e il disincanto con un fraseggio misurato ma capace anche di aprirsi a sprazzi d'ironia, Iniesta sfrutta proiezione e ampiezza per esprimere la stessa sfrontatezza quasi disperatamente aggressiva che le leggiamo nello sguardo e che tuttavia non ne ha del tutto prosciugato l'umanità (lo si vede nel modo in cui impone a Rodolfo di fingere d'aver provveduto lui al manicotto).
Mimì e Rodolfo sembrano più determinati e intraprendenti al loro primo incontro, ma come rapidamente nasce, così rapidamente sfiorisce il loro amore fra rimorsi e desideri che rimangono troppo spesso taciuti e celati. Alessandra Marianelli subisce un'autentica metamorfosi fisica, tanto smunta ed emaciata appare in volto nel quarto atto; nello stesso canto, parimenti, l'incedere della malattia e della disperazione innerva lo stesso suono e l'articolazione musicale. Dotato di mezzi naturalmente rilevanti di schietto tenore lirico pieno, di bel timbro e squillo facile, Matteo Lippi potrà senz'altro crescere artisticamente con l'esperienza, ma forse anche proprio per questo il suo Rodolfo semplice, quasi impreparato di fronte alle prove della vita, si conquista le nostre simpatie. In particolare quando l'invito a di Colline a Schaunard a lasciare soli i due innamorati si trasforma in un muto confronto di sguardi, in cui il musicista pare interrogare sul da farsi filosofo e poeta e questi sembra temere l'allontanarsi degli amici, ma non poter far altro che assentire. D'altra parte, se questo spettacolo è un capolavoro lo si vede bene da questi dettagli, che fanno la differenza proprio per come sembrano nascere ogni sera naturali e spontanei, freschi e nuovo. Non ci si stancherebbe mai di vedere e rivedere questa Bohème, che pure non ci dice nulla di così nuovo, incredibile, rivoluzionario: dice quel che dice il cuore del testo, quel che rende quest'opera un capolavoro eterno capace di racchiudere quel momento meraviglioso e terribile nella vita di ciascuno in cui gioia e speranza nascono e s'infrangono, in cui scopriamo e tocchiamo con mano l'ineluttabilità della morte. Michele Mariotti coglie la poesia crudele di questo momento in un accompagnamento mirabile della "Vecchia Zimarra", un'inesorabile marcia funebre carezzata dal canto caldo dei legni, ma tutta l'opere è caratterizzata da un dialogo incessante fra voci e strumenti, da una fusione perfetta fra melodia e conversazione, da una sublimazione dei tipici gesti musicali con cui Puccini rappresenta financo gli oggetti in scena, che diventano elementi drammaturgici e non didascalici, esattamente come i mille dettagli dell'azione scenica. Nulla illustra o spiega. Tutto è. Ed è arte che inventa il vero, ci parla di noi ma non ammicca, non compiace: sentiamo, semplicemente, che è ciò che deve essere, e per questo ci entra nella mente, nello spirito, nel cuore.
foto Rocco Casaluci