L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Un sì felice istante

 di Roberta Pedrotti

Un cast d'alto livello e affiatatissimo, la bacchetta eccellente di Yves Abel, un nuovo spettacolo ispiratissimo di Pierluigi Pizzi sono gli ingredienti per un Barbiere di Siviglia finalmente da ricordare al Rossini Opera Festival.

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PESARO, 13 agosto 2018 - In quasi quarant'anni di Rossini Opera Festival, l'opera più celebre ed eseguita del Pesarese non ha avuto vita facile. In primo luogo per l'ovvia ragione che, nel luogo deputato al recupero del sommerso rossiniano, Il barbiere di Siviglia non fosse un'urgenza prioritaria di programmazione; in seconda istanza perché fin dall'inevitabile debutto in grande stile per il festival del 1992, il capolavoro buffo ha faticato a convincere a Pesaro. Non entusiasmò lo spettacolo di Squarzina, che parve troppo cupo, anche se nella ripresa del 1997 c'erano almeno Sonia Ganassi, Roberto Frontali, Bruno Praticò e la bacchetta di Yves Abel a farsi valere. Nonostante la presenza di Juan Diego Florez e Joyce Didonato non piacque troppo nemmeno l'allestimento ronconiano del 2005 con la direzione tendente al plumbeo di Daniele Gatti, né resta memorabile una più recente produzione al Teatro Rossini con un cast non privo di meriti e una messa in scena piuttosto caotica su cui però scende l'indulgenza per l'esser firmata da un gruppo di studenti dell'Accademia di Belle Arti di Urbino. Nel mezzo splende il ricordo dell'esecuzione in forma semiscenica diretta da Alberto Zedda nel 2011: tanta passione, locandina notevole, podio galvanizzante, gustosa recitazione in un'essenziale cornice nuda. Al di là di quella serata incantevole, però, nessun Barbiere memorabile al Rof, almeno finora: l'edizione 2018 del Festival si potrà infatti ricordare per un allestimento dell'opera buffa per antonomasia da iscrivere a lettere d'oro negli annali della manifestazione.

Torna, dopo ventun'anni, sul podio Yves Abel e la sua lettura è maturata, si è evoluta e si è arricchita di sfumature. Già l'ouverture esibisce disinvolta, come un biglietto da visita, un'articolazione limpidissima di tutte le architetture musicali, un dosaggio magistrale del rubato che fa il paio con un ammirevole riserbo di fronte a effetti di tradizione, un crescendo impeccabile, un gusto per il colore e la dinamica sottile e rapinoso. È un'ovazione, meritata, che giunge e prelude a una lettura bella, intelligente, mai banale, sempre avvincente, priva di qualsivoglia affettazione o artificio fine a se stesso. La misura nelle variazioni, la linea depurata dallo scontato e dal prevedibile non si sclerotizzano in un rigore senz'anima, anzi, sembrano risplendere come di nuova vita, in una pulizia e in una luminosità leggiadra che si rispecchia senza fronzoli nell'allestimento di Pierluigi Pizzi.

Chi avrebbe detto che il maestro, a ottantotto anni, potesse ancora avere in serbo un debutto, e in uno dei titoli più eseguiti al mondo? Eppure questo Barbiere è il suo primo, e ha la freschezza e la consapevolezza del Falstaff per Verdi. Lo spettacolo è, infatti, pervaso da un senso affettuoso in cui l'omaggio, lo sguardo al passato si impreziosiscono della vitalità del presente senza mai prendere il sopravvento su di esso. Riconosciamo un mosaico di citazioni, ma sembra quasi un gioco assai rossiniano con il pubblico, ben incastonato nella drammaturgia, inscindibile da essa e mai, mai impigrito nella maniera. Come non sorridere di fronte a Figaro che, nella cavatina, sembra fare il verso all'icona di Anna Caterina Antonacci nella vasca da bagno in Un giorno di regno, o al parmigiano Pertusi che riprende un altro momento topico di quel medesimo spettacolo nato a Parma affettando un salume (essendo a Pesaro, forse più ciauscolo che salame di Felino)? Lo stesso Figaro entra in scena con una pianta di agrumi che non può non far pensare al “fior d'arancio” di Nonancourt nel Cappello di paglia di Firenze, altro mitico allestimento di Pizzi cui, forse, s'ispira il pediluvio di Rosina in un momento di intimità e dolcezza: quando il conte, teneramente, s'inginocchia e le asciuga i piedi premuroso, lei sorride e si schermisce “mio signor, ma voi... ma io...” suscitando un piccolo brivido sentimentale. E via così, con luci, effetti di silouette, tessuti meravigliosi, costumi di sopraffina eleganza a ribadire la firma di Pizzi con una classe che non stucca né si adagia nello stereotipo. Anzi, gioca ancora a meraviglia con un cast assortito alla perfezione con un'aderenza, oltre che vocale, fisica e anagrafica totale per ciascun personaggio. Trovare, per esempio, una magnetica Elena Zilio quale Berta regala un cameo che sarà difficile dimenticare, ma nondimeno William Corrò sa conquistare con un Fiorello che non si dilegua dopo le prime scene, bensì funge da camaleontica, spassosissima spalla in tutte le peripezie del suo padrone, vestendo all'occorrenza anche i panni complici di Ufficiale. Nei recitativi riproposti integralmente (e che gioia sentirli eseguire con tanta esattezza stilistica e tanta verità teatrale con il fortepiano spiritoso e arguto di Richard Barker, purtroppo orbato del violoncello filologico nello sviluppo del continuo) trova spazio e valorizzazione anche l'Ambrogio di Armando De Ceccon. Tutti gli interpreti, però, si giovano di questo maggior spazio teatrale perché tutti sanno approfittarne con gusto e tutti possono vantare una scioltezza da madrelingua, quand'anche madrelingua non siano. È proprio il caso dei due innamorati, Maxim Mironov e Aya Wakizono, una coppia dal fascino intrigante: belli, bravi, elegantissimi, catturerebbero da soli l'attenzione se non fossero circondati da colleghi parimente carismatici. Nessuno dei due vanta una voce particolarmente grande, ma non è certo un problema: il canto estremamente duttile di Mironov trasuda intelligenza e sensibilità artistica da ogni nota, i travestimenti sono caratterizzati con spirito elegantissimo, l'innata nobiltà del Grande di Spagna vissuta con una nonchalance consapevole, affabile e divertita fino a un Rondò che scatena un turbine di applausi. Wakizono sigla la sua più bella prova pesarese, totalmente a suo agio in un personaggio che le calza a pennello e le permette di mettere in luce la morbidezza raffinata del timbro, la squisita musicalità, il fraseggio vispo e sentimentale, la presenza accattivante. Complice perfetto è il Figaro di Davide Luciano, che sembra ogni giorno più bravo nel liberare una vocalità privilegiata per la schiettezza del timbro, la franca espansione in tutta la tessitura, la facilità musicale e l'incisività espressiva. Se a ciò si aggiunge l'intelligente dinamismo di un attore scaltrito e comunicativo, sarà facile capire che ci troviamo di fronte a un factotum di prima grandezza, che alla spavalderia epidermica preferisce uno slancio autentico, affascinante, rifinito e sfaccettato, per esempio in qualche piccolo gesto più che galante nei confronti di Rosina.

Dire, infine, che Don Bartolo e Don Basilio rispondono ai nomi di Pietro Spagnoli e Michele Pertusi potrebbe bastare, se non fosse che artisti di questo calibro non si limitano mai a vivere di rendita della loro gloria e del loro carisma. I loro non sono camei di due storici pilastri del Rof, ma sono due creazioni teatrali formidabili: il prestante, burbero tutore di Spagnoli, dall'impettita ed enfatizzata R arrotata alla parmigiana (un gioco metateatrale con il collega?) riscopre un'autorevolezza, e quindi una consistenza rara nelle consuete letture buffe. Parimenti Pertusi si inventa con fenomenale, sorniona ironia, un maestro di musica balbuziente la cui sottile dabbenaggine elude ogni sospetto di compiacimento o di stereotipo. Superfluo, forse, ma sempre giusto rendere omaggio, con la tecnica e la padronanza dei propri mezzi (che spettacolo l'arietta “di Caffariello” tutta in falsetto a evocare il castrato!), alla somma musicalità e al gusto di entrambi.

Mentre lo spettacolo cavalca gioioso di scena in scena, fluido, ricco, originale e avvincente anche nelle allusioni e negli omaggi più familiari, vanno lodati anche la collaborazione di Massimo Gasparon (assistente alla regia e autore delle luci), l'Orchestra sinfonica nazionale della Rai, forte anche di un comparto di percussioni che permette a Yves Abel di non temere le insidie dei suoni indeterminati, il coro del Ventidio Basso preparato da Giovanni Farina ed Eugenio Della Chiara, cui spetta la parte di chitarra in “Ecco ridente in cielo” ripristinata da Zedda, mentre la serenata “Se il mio nome” viene accompagnata direttamente sul palcoscenico da Davide Luciano.

Risate, applausi a scena aperta e poi ancora tanti, tanti applausi per un Barbiere da ricordare e che farà ricordare questa edizione del Festival.

foto Amati e Bacciardi


 

 

 
 
 

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