Bartoli, prima Isabella per Rossini
di Francesco Lora
Il Festival di Salisburgo ha applicato la filologia musicale all’Italiana in Algeri: timido l’esito di Spinosi e dei suoi strumenti originali, efficacemente scorretta la regìa firmata Leiser-Caurier, sbalorditiva la compagnia capeggiata dalla Bartoli.
SALISBURGO, 11 agosto 1018 – Nei giorni del Rossini Opera Festival di Pesaro, è l’Austria a mettere pepe sul lascito del grande Gioachino e di chi fu da lui influenzato: in particolare, su nuove vie più o meno filologiche per affrontarlo in sede esecutiva, e sull’importanza di mettere a confronto poetiche tra loro interrelate. Il Festival di Musica antica di Innsbruck ha reso il proprio omaggio a Rossini non attraverso una sua opera, bensì attraverso la Didone abbandonata di quel Mercadante costretto a rossinizzarsi per compiacere la moda; e lo ha fatto con un’esecuzione musicale interessata a recuperare i volumi e i timbri degli strumenti originali [leggi la recensione]. Contemporaneamente, dall’8 al 19 agosto, nella Haus für Mozart, il vicino Festival di Salisburgo ha ripreso per cinque recite L’Italiana in Algeri già presentata in maggio durante la rassegna di Pentecoste: una produzione che a sua volta prende le distanze dalla filologia dello spettacolo, per non passare da anticaglia teatrale, ma che nel contempo – apparente paradosso – è attratta dalla filologia musicale, per ritrovare modi nuovi nell’antico.
A Salisburgo la filologia musicale si è tuttavia limitata alla superficie. V’erano gli strumenti originali dell’Ensemble Matheus diretto da Jean-Christophe Spinosi. Se si eccettua il disinibito sfogo delle turcherie bandistiche notate in partitura, però, il concertatore si è attenuto all’abitudine novecentesca in fatto di tempi e tinte: una direzione dal tratto svelto ed essenziale, ma piuttosto timida nel vortice delle strette, altrettanto generica nell’assecondare la parola e così pure nell’evidenziare timbriche inedite. Tagli minimi nei recitativi secchi, sostenuti dal solo fortepiano in spregio alla giusta prassi di trio con violoncello e contrabbasso (senza di essa, la portata sonora del basso continuo rimane esigua e il cembalista si sente autorizzato a strafare). Occasione mancata, poi, quella di sostituire alla graziosa cavatina di Lindoro «Oh come il cor di giubilo», composta da un collaboratore ed entrata nella tradizione, la ben più ispirata e complessa «Concedi, amor pietoso», dovuta a Rossini stesso e indice di letture più forbite. Puntuale nel solfeggio ma scialbo nel porgere il Philharmonia Chor di Vienna: la colpa di non essere italiano.
Se la regìa spetta a Moshe Leiser e Patrice Caurier, è escluso attendersi da loro il politicamente corretto. Né questa categoria fa in effetti parte della genesi dell’Italiana in Algeri, dramma giocoso ove l’astuzia, l’avvenenza e l’emancipazione di un’occidentale naufraga incatenano, ridicolizzano e mettono in buca il dispotico governatore della costa nordafricana. Senza tanto girarci attorno, la coppia registica porta in scena gli stereotipi comportamentali e visivi del mondo islamico contemporaneo: il maschilismo di lui, rozzo, e la relativa sottomissione di lei, velata; le antenne paraboliche ai balconi e le scatole di elettrodomestici. Ha così luogo anche un impietoso capolavoro scenografico di Christian Fenouillat, accanto a quello costumistico di Agostino Cavalca, attento a distinguere il guardaroba di culture differenti e a declinarne in ridere il maldestro punto d’intersezione. Un allestimento affilato, mai ozioso, a misura culturale del più famoso festival al mondo, cui manca soltanto – e in modo deliberato – la cifra dell’eleganza così ben connaturata a Rossini e così ben canonizzata nella storica lettura di Jean-Pierre Ponnelle.
Sbalorditiva la compagnia di canto, sia per lusso sia per esiti, ivi compresa la disinvoltura scenica. A capeggiarla è stato il motore di tutta l’iniziativa, come direttore artistico del Festival di Pentecoste: Cecilia Bartoli, mezzosoprano che nella propria carriera si è impadronita dell’intera estensione sopranile e che non ha esitato ora a debuttare nella parte scabrosamente contraltile di Isabella. L’autentica primadonna all’italiana, del resto, sa salire e scendere lungo tutti i registri, fino a mandare in crisi le categorie dei vociologi: la Bartoli mulinella semicrome con la solita elettrizzante energia che è di nessun’altra, recita in musica con l’idiomatica e divertita leggerezza di chi sa tenere la commedia, incanta col brillante ritratto del personaggio e insieme afferma lo status di arcidiva; infine spalanca un inaudito registro grave che non è bronzeo né vellutato, ma impettito, grandioso, androgino, scultoreo come se fosse preso in prestito dal più risoluto dei Tancredi o degli Arsace. Il rondò nell’atto II, con la sua enfasi retorica e la sua minuta coloratura, non attendeva altro: la Bartoli, arguta, lo ha intonato vestendo un suo abito da concerto.
Un solo cambiamento rispetto alle due recite di maggio: non più Peter Kálmán come Mustafà, ma il più sfarzoso Ildar Abdrazakov, persona imponente nella figura, basso esotico nel timbro, attore autoironico nella caratterizzazione, vocalista tuttora in grado di martellare i passaggi d’agilità benché nella sua gola si siano frattanto insediati Filippo II e Boris Godunov. Una linea di canto sopraffina va del pari ammirata nel Lindoro di Edgardo Rocha, capace di modulare con uguale esattezza, facilità e fragranza a ogni stadio dell’elevata tessitura. Quanto al Taddeo di Alessandro Corbelli, non si sa se trasecolare con più ragione al cospetto di una vis comica esplosiva e nondimeno incapace di banale istrionismo, o se piuttosto magnificare un patrimonio vocale la cui inespugnabilità tecnica si fa viepiù evidente col passare degli anni. Alla comprimaria Elvira spetta la parte più acuta nei pezzi d’assieme, e Rebeca Olvera era lì pronta al compito senza perdere spirito attoriale; un merito di abnegazione, questo, condiviso con una sentenziosa Rosa Bove quale Zulma e uno spigliato José Coca Loza quale Haly. Rossini è servito.
foto Salzburger Festival / Marco Borrelli, Monika Rittershaus e Bernd Uhlig