Surrealismo infernale
Il Teatro Grande di Brescia rende omaggio al concittadino Giancarlo Facchinetti, scomparso nel 2017, con la messa in scena della sua cantata scenica Viaggio musicale all'inferno, una sorta di testamento artistico del compositore. Buoni l'affluenza e il successo di pubblico.
BRESCIA, 12 ottobre 2018 - Ogni qual volta il Teatro Grande di Brescia (in questo caso non parliamo di OperaLombardia, trattandosi di una produzione autonoma) si cimenti nel repertorio contemporaneo si ha sicura garanzia di qualità.
Oltretutto nella serata del 12 ottobre nella città delle Dieci Giornate si celebrava una gloria locale come Giancarlo Facchinetti, scomparso lo scorso anno e, giustamente, ricordato dalle locali istituzioni, all’interno della stagione lirica.
La serata era suddivisa in due parti, la prima destinata all’ascolto di composizioni cameristiche di Facchinetti, la seconda alla breve opera Viaggio musicale all’inferno.
Nell'interpretazione del Dèdalo Ensamble, diretto da Vittorio Parisi, si è ascoltato dapprima il dodecafonico Hügelchen per flauto, clarinetto, fagotto, violino, viola, violoncello e pianoforte, quindi il più interessante Musica da teatro per flauto, fagotto, cinque archi e tamburo basco ad libitum, che presenta una struttura apparentemente neoclassica, quasi settecentesca, per destrutturarsi dopo pochi minuti, fino a tentar di ricomporsi in vista di un finale che, di per sé, non appare come una reale chiusa, ma lascia l’ascoltatore in un clima di sospensione, quasi la melodia finale attendesse di essere conclusa nelle aspettative di questi.
Bella e coinvolgente la cantata scenica Viaggio musicale all’inferno: si tratta di un disegno surreale, correttamente sottolineato dalla regia di Danilo Rubeca, di un pianista (il Narratore) che ritrova, guidato dalla musa Euterpe, tutti gli spettri delle ostilità che aveva vissuto nei gironi infernali, qui chiamati, con intuizione invero brillante, ordini di palchi.
Nel primo girone ritroviamo i critici musicali, coloro che giudicano il musicista e possono, con la loro competenza o incompetenza, indirizzarne le sorti. La descrizione che il libretto di Andrea Faini fa di questa categoria è simpatica, per certi versi condivisibile. La miglior scena, drammaturgicamente parlando, è quella del girone (ordine di palchi) successivo, quando la Musa e il narratore incontrano i lussuriosi (o troppo romantici), ossia coloro che si empiono la bocca di frasi costruite, “Autori di scarabocchi dai sentimenti drogati”, anelanti ridicole (ma purtroppo attuali) frasette quali “le tue pupille fanno scintille”, “la tua bocca sa di albicocca” o “i tuoi capelli tendono tranelli”. Tutti destinati ad annegare nella melassa. Poi tocca ai virtuosi, agli eretici, ai falsari e ai traditori. Tutti questi appartengono a una categoria professionale o stilistica dell’ambito musicale. Riguardo i musicisti ci si lagna dell’integralismo su determinate idee o della scarsa originalità, tradimento nei confronti della musa Euterpe.
Viene a galla l’animo dell’uomo-compositore, quando, all’inferno, vengono incontrati i dirigenti teatrali, gli agenti e i direttori d’orchestra, ai quali – tutti – viene attribuita incapacità, vanagloria, frustrazione, disonestà conclamata, nepotismo e brama di profitto. Si tratta di una generalizzazione un po’ esagerata, che trascende nel luogo comune, quando si scopre che tutti desideravano essere musicisti di successo, ma avendo fallito si fossero rifugiati in altro mestiere avverso all’arte. Sono discorsi che si sentono soventeancor oggi: “invidioso”, “fallito”, et similia, solo perché non si era ricevuto un apprezzamento o un ingaggio. Sinceramente, sono diventate un po’ stucchevoli.
Efficace il finale con l’uscita del narratore dall’inferno e una morale esplicativa della Musa che fa da chiusa alla cantata nel suo insieme.
La regia segue pedissequamente la drammaturgia del libretto, sottolineandone –dichiaratamente- gli aspetti surreali. Il pianista sta per esibirsi in un concerto, dopo aver ricevuto il premio “Vittoria Alata” (la massima onorificenza bresciana). Il pubblico, o forse solo la sua immaginazione per il timore prima del concerto, non appare soddisfatto. Una donna gli strappa sdegnosa la statuetta e si allontana. È ora che la Musa (una donna che l’artista incontra per strada e a cui non poteva resistere) si palesa nella sua doppia forma di fanciulla e di statua conducendolo in una serie di ambienti stilizzati, che, stilisticamente, rimandano con prepotenza a immagini care a un regista come Luis Buñuel, perlomeno nella forma iconografica. È l’inconscio del musicista che prende forma nelle paure e nelle angosce.
Nel finale il narratore\pianista torna a sedersi, quasi la cantata fosse stata solo un incubo prima dell’esibizione. Personalmente mi ha rammentato il bel cortometraggio di Georges Méliès, Les incendiaires, creato nel 1906 sulle angosce d’un condannato alla ghigliottina.
Musicalemente assai interessante per varietà stilistica, originalità e capacità comunicative la partitura ben interpretata dal Dèdalo ensemble e dal concertatore Vittorio Parisi.
Bene tutti gli interpreti: Maurizio Leoni (il narratore), Daniela Pini (Euterpe), Claudio Rosolino Cardile (trombettista figlio di papà\professor Bemolle), Paolo Marchini (romantico d’accatto\pianista arrivista), Roberto Covatta (Doctor Gradus ad parnassum\musicologo), Ragaa Eldin (Cantante pop\Mister Millenote), Erika Tanaka (produttrice cinica), Aloisa Aisemberg (ercante ignorante), Giuseppe Nitti, Ermelinda Pansini, Alessandro Pezzali, Giuseppina Turra (Dannati\eretici), Beppe Passadori, Pietro Sabbadini (figuranti).
Le scene erano di Domenico Franchi, i costumi di Simona Morresi e le luci di Fiammetta Baldiserri.
L’allestimento è di proprietà del Teatro Grande di Brescia che ringrazia per la collaborazione la Scuola dell’opera del Teatro Comunale di Bologna.