Verdi maledetto
Continua a non convincere la lettura fantasy del Trovatore di Paul Curran, titolo di apertura della stagione lirica del Teatro Regio di Torino. Meglio amalgamata la seconda compagnia di canto.
Torino, Il trovatore, 10/10/2018
Torino, 12 Ottobre 2018 – Corre sul crinale tra cronaca e leggenda il celebre racconto secondo cui il giovanissimo Verdi, distrattosi nel servire messa al santuario di Madonna dei Preti, avrebbe maledetto, dopo aver ricevuto una fragorosa pedata, un certo don Giacomo Masini, con il colorito anatema «Dio t’ manda na saiètta». Saette e anatemi ricorrono spesso nelle opere del Cigno di Busseto, dal fulmine di Nabucco all’invettiva di Amneris contro i sacerdoti, dall’(auto)maledizione di Paolo Albiani nel finale primo di Simon Boccanegra a quella di Monterone nel Rigoletto o ancora quella che avvolge, nel dramma e fuori (secondo il mito), La forza del destino. Se da un lato questa storia trova un fondo di verità nei trafiletti conservati nei registri della chiesa, dall’altro la correlazione tra l’importanza del tema della maledizione nella drammaturgia verdiana e il vissuto dell’uomo corrobora più il romanzo sulla vita dell’artista che la giustificazione di un percorso ben più articolato, incline ai suggerimenti letterari d’oltralpe. Più robusta e verosimile appare l’idea di un autore, quasi etnomusicologo, che ha saputo accondiscendere la sensibilità di un pubblico, allora più di oggi, variegato e meno circoscritto. Favorendo questa lettura, nel Trovatore, dove Verdi sintetizza nell’avversità al popolo gitano i tratti somatici di una fisionomia sociale chiaramente occidentale, la maledizione non fa più da sostrato mistico, bensì si trasforma nel pretesto di un popolo superstizioso e crudele i cui pregiudizi verso gli zingari balzano all’orecchio già dalle prime battute d’apertura. Tale suggestione trova ancor più riscontro nel libretto originario dell’opera, quando il Conte, prima del duetto con Leonora, esclamava «Giusto è il rigor: perversa stirpe è questa, d’ogni delitto piena», invettiva poi modificata a favore dei ben più responsabili e riflessivi versi «Abuso forse quel poter che pieno in me trasmise il prence? A tal mi traggi» prima del debutto romano (è divertente e amaro al tempo stesso constatare come più di un secolo e mezzo fa la censura avesse potuto ritenere offensivo un inciso che oggi sarebbe assurto a motto di certi partiti alla guida del paese). Stretta dunque tra pragmatismo e abbandono fantastico, immersa in una cornice gotica e notturna non priva di finiture romantiche e cavalleresche, la circostanza amorosa, così come l’aura magica, è più una condizione al contorno che il polo drammatico dell’azione, e da sole non sono sufficienti a documentare il taglio con cui Paul Curran modella il suo Trovatore, prodotto nel 2005 dal Teatro Comunale di Bologna e ora in scena al Teatro Regio di Torino in occasione dell’apertura di stagione.
Di fatto è da individuare nell’impostazione del regista scozzese il tallone d’Achille dell’intero allestimento. Se già infastidisce l’accostamento del risorgimento italiano – in cui è stata trasportata, assecondando gli ideali verdiani palesati in molte parentesi corali, la narrazione – a interpretazioni fantasy e immaginifiche, è la totale mancanza di mira nella modellazione teatrale, tutta concentrata su trovate spesso irrisorie e prive di aderenza (quando, all’inizio della terza parte, una fanciulla fugge urlando prima di essere catturata dai soldati del conte, in platea si leva una grassa risata), a ridicolizzare l’esito dell’allestimento bolognese. Sfugge ogni sorta di coerenza la visione di un’Azucena dapprima in grado di scaraventare al suolo e fronteggiare come un’amazzone, animata chissà da quale soprannaturale potenza, un manipolo di soldati e poi, sul finale, incapace di tenere testa ai due armigeri mentre si conduce il figlio al patibolo. Certo, quello della zingara è un ruolo criptico, così come oscure appaiono sempre le sue battute, e il personaggio lascia spazio a diversi impianti psicologici: quest’ignavia finale potrebbe essere dunque il tassello conclusivo di un disegno vindice e macchinoso (nel duetto Azucena stessa invita Manrico, allorquando si ripresentasse l’occasione, di immergere la lama «all’empio in cor!»), ma tali considerazioni sembrano appartenere più a una rielaborazione a posteriori che a un progetto scenico schematizzato a tavolino. Non si approfondisce l’intricata natura del rapporto genitoriale, altro luogo comune in cui l’occidente relega il popolo errante, a tratti malato proprio come accade in Rigoletto, e la componente passionale illanguidisce persino i momenti di febbrile trepidazione (a tal proposito, perché Manrico dovrebbe rivolgersi con sguardo mellifluo e braccia aperte a Leonora sulle parole della cabaletta «Ero già figlio prima d’amarti, non può frenarmi il tuo martir» come se Rodolfo stesse cantando a Mimì?).
Tra suore bellicose e processioni notturne, insomma, i protagonisti sono abbandonati sempre a se stessi, costantemente in proscenio e immobilizzati dall’inerzia di una caratura drammatica su cui non è posto né enfasi né accento. Le scenografie e i costumi lineari di Kevin Knight sposano la visione risorgimentale dell’opera costruendo ambientazioni pugnaci e austere, stemperate in un fondale su cui giganteggia, con citazione prevedibile, l’onnipresente luna.
Note positive arrivano invece dal versante musicale e in particolare dalla seconda compagnia di canto, nel complesso ben amalgamata. Per la bellezza del timbro mezzosopranile scuro e corposo s’impone su tutti l’Azucena di Agostina Smimmero – poco gratificata a scena aperta ma ampiamente ripagata nelle chiamate finali – e anche nelle emissioni di petto la ricerca del colore conferisce una buona omogeneità all’intera tessitura. La Smimmero sa alternare momenti di grande dolcezza a impennate fiere e drammatiche, restituendo al personaggio il ventaglio di sfaccettature che Verdi ha riservato alla gitana. Visivamente, però, nella scena della domatrice di soldati e nell’ultimo quadro, dove si arrampica sulle grate come un canarino in gabbia (quasi Curran volesse relegare Azucena, nemmeno fosse Lady Macbeth, in una dimensione ferina o demoniaca), patisce più degli altri le scelte registiche e talvolta il risultato è poco credibile. A Samuele Simoncini si dà atto di aver ben inteso Manrico come un cavaliere diviso tra liuto e spada e non come un istrione lanciatore di acuti sulla falsariga del Duca di Mantova. Ne consegue una linea di canto composta e attenta all’accentazione della parola, seppur l’emissione tenda a indietreggiare sulle smorzature. Meno accattivante Karina Flores nel ruolo di Leonora. Superati con magnetismo patetico e trasognante i cantabili di «Tacea la notte placida» e «D’amor sull’ali rosee», il soprano russo mostra il fianco nei passaggi d’agilità, risultando piuttosto imprecisa nei vocalizzi del concertato del finale secondo e nella cabaletta del duetto col Conte di Luna di Damiano Salerno. Quest’ultimo ha in dote una voce chiara e sonora, tornita sul versante delle sfumature dinamiche, di cui si loda il legato nella celebre aria «Il balen del suo sorriso». Molto apprezzabile il Ferrando di Fabrizio Beggi, invero incisivo nel fraseggio e preciso negli abbellimenti dell’aria di introduzione. Corretti Ashley Milanese e Patrizio Saudelli, rispettivamente Ines e Ruiz, meno il vecchio zingaro e il messo di Marco Tognozzi e Alejandro Escobar.
Se si escludono le incudini ad libitum, è ottima la prova dell’Orchestra e del Coro del Teatro Regio di Torino preparato dal maestro Andrea Secchi. Sulla direzione del maestro Pinchas Steinberg vale esattamente quanto asserito nella recensione della prima: una concertazione forbita e rodata, avvalorata viepiù da un’esperienza pluriennale, privata però di un mordente tale da elettrizzare la tensione in sala. Rimane comunque il dispiacere per un lavoro di forbici abbastanza spinto che ha eliminato pressoché tutte le riprese.
Gli applausi di una platea non proprio gremita salutano con calore e affetto tutti gli artisti, evidenziando una generosa solidarietà verso le maestranze del Teatro la cui prospettiva, stando a quanto affermato dal comunicato sindacale letto prima dello spettacolo, non sembra rasserenarsi nemmeno dopo l’incontro del sovrintendente Graziosi e della sindaca Appendino con il ministro dei beni culturali Bonisoli. Nella morsa dei buchi di bilancio, sostituire Giordano, Strauss o Berg con Trovatore, Traviata e Rigoletto potrebbe essere un esorcismo inutile e inefficace. Se fatto male, Verdi non maledice, condanna.