Mozart e il cinema muto
Il ritorno al Costanzi di Die Zauberflöte è caratterizzato da una regia sperimentale, l’opera d’esordio del gruppo “1927” (S. Andrade – P. Barritt), che trasforma la pièce in una fantasmagoria di animazioni che ha come minimo comun denominatore l’estetica del cinema muto. La direzione di Henrik Nánási rende piena giustizia all’incredibile varietà della partitura; il cast è omogeneo per qualità e performance, con punte di apprezzamento nella Regina della Poulitsi e nel Tamino di Gatell.
ROMA, 13 ottobre 2018 – Die Zauberflöte, l’ultima opera lirica di Mozart, ha fatto scrivere, letteralmente, fiumi di parole: il suo archetipico simbolismo e il rapporto con la Massoneria sono solo alcuni dei temi più trattati. Eppure, al fondo, la Zauberflöte è una favola, scritta in uno stile estremamente popolare all’epoca e pensata per il grande pubblico, quello che affollava il suburbano Theater auf der Wieden nel 1791. In una sola partitura coesistono magnificamente, dunque, due anime: quella simbolica e quella favolistica, che si amalgamano quasi senza possibilità di discernerle bene.
Portare in scena Zauberflöte vuol dire, di conseguenza, fare una scelta che può essere anche estremamente radicale. L’opera è versata a mille letture differenti e proprio il suo carattere eclettico, talmente semplice, talvolta, da risultare sfuggente, può ispirare regie anche d’avanguardia. Il caso della versione berlinese della Komische Oper è proprio questo: una rilettura che definirei del tutto particolare, certamente in linea con lo sperimentalismo di marca teutonica. Dunque, il Costanzi accoglie una versione della Zauberflöte ben diversa dal faraonico spettacolo con cui David McVicar fece sognare il pubblico romano nel 2012; uno spettacolo che era perfettamente in linea con la tradizione degli allestimenti magnifici della Zauberflöte, iniziata proprio da Schikaneder nel teatro che la tenne a battesimo. Questa versione berlinese è stata ideata dal gruppo “1927”, formato da Suzanne Andrade e Paul Barritt, che si approccia per la prima volta all’universo dell’opera; è stato Barrie Kosky, direttore della Komische Oper, a convincerli ed è lui che firma la regia assieme alla Andrade. Il gusto teatrale di “1927”, estremamente eclettico, è imperniato sul leitmotiv del cinema muto: molti dei personaggi, dunque, sono vestiti di nero, con taglio e abbigliamento anni ’20, e rappresentano il trait d’union fra l’estetica iconografica del cinema muto e la favola della Zauberflöte. Nello spettacolo, la Regina della Notte è un enorme ragno, mentre Sarastro è il capo di una setta massonica di iniziati abbigliati elegantemente all’ottocentesca, che si servono di automi, robot e schiavi che sembrano provenire da un altro mondo. Tutta la regia, sostanzialmente, è basata sul delicato rapporto fra il movimento dei cantanti in scena e le proiezioni video ideate ad hoc: il palco sfruttato, di conseguenza, è veramente poco, sostanzialmente poco più del proscenio, e tutta la realizzazione è fatta con proiezioni su una parete bianca, che ha diverse uscite, in alto e in basso, per creare le dinamiche necessarie. Il magico flauto diviene una fatina, mentre gli incantati campanelli di Papageno sembrano delle ballerine da cabaret. Come si può immaginare, sono molte le fantasmagorie che “1927” è riuscito a creare per ‘dipingere’ la Zauberflöte: giganteschi robot che gestiscono il Tempio di Sarastro; mondi con giganti di fuoco; regni sottomarini; imponenti elefanti automi e macchine che fanno volteggiare Sarastro; e, perfino, una discesa al centro della terra durante la massonica iniziazione di Tamino e Pamina. In tutto questo dispiegarsi di immaginazione non mancano siparietti comici, come quello fra Papageno e Papagena, con tanto di bomba (che esplode come in un cartoon) e prole che si moltiplica; o, ancora, quando Papageno, durante l’aria dei campanelli, beve una sostanza rosa da un’enorme coppa da Martini e vede volteggiare attorno a sé elefanti volanti che occhieggiano a Dumbo e a Fantasia. Le fonti d’ispirazione, quindi, sono molte; “1927”, poi, gioca con un’ostentata naïveté nello stile delle proiezioni. Non posso dire di essere stato pienamente soddisfatto di ogni minuto o scelta dello spettacolo, ma certamente a “1927” va il merito di aver creato qualcosa di realmente insolito e particolare, direi addirittura geniale, che in un mare di stantio sperimentalismo (che sta quasi diventando più classico del classico stesso) è una bella boccata d’ossigeno. Proprio come avveniva nei film muti d’epoca, però, i registi scelgono di eliminare i dialoghi, sostituendoli con le tipiche didascalie esplicative: questo fatto, purtroppo, nuoce molto alla comprensibilità di diversi momenti della storia, come il motivo per cui la Regina odia Sarastro e la questione della Settemplice Collana del Sole. Inoltre, proprio la scelta dell’estetica in bianco e nero del film muto sacrifica i momenti di pura luce che dovrebbero caratterizzare Sarastro e il suo universo, che rappresenta il sole in opposizione manichea al mondo lunare femminile della Regina. Taluni elementi simbolici, dunque, vengono sacrificati: ma è, tutto sommato, una scelta lecita, più o meno condivisibile, a seconda dei gusti personali. Qualche parola sul finale. Il momento del trionfo della luce, appunto, è rappresentato come la distruzione della pellicola del film stesso e la celebrazione della fine del percorso iniziatico è ridotta a un corale in costume ottocentesco (quello massonico), a film finito, che non rende bene, però, il trapasso solare compiuto dai due giovani: cromaticamente, dunque, la simbologia di questa Zauberflöte poteva essere pensata diversamente.
Veniamo ora alla parte musicale. Plauso e complimenti al direttore Henrik Nánási, che fin dall’ouverture fa sentire un piglio puramente mozartiano: ottimi attacchi, concertazione ben scandita, vivace, briosa, adatta a far risaltare quella brillantezza che è la firma migliore del salisburghese. Nánási sa rallentare, scandire, quando deve (come negli accordi ‘massonici’ con cui si apre l’opera o nelle grandi scene corali), ma sa anche guizzare; né risparmia una serie di accorgimenti, come qualche lieve rallentamento per consentire ai cantanti di eseguire taluni momenti particolarmente impervi, da consumato concertatore. L’orchestra, da par suo, ha un suono stupendo. Il coro fa abbastanza bene nei momenti d’insieme, con qualche lieve scollamento qua e là, che non inficia una solida performance.
Il cast dei cantanti, omogeneo per qualità e buona preparazione nella recitazione, dona una bella serata di musica al pubblico accorso. Pamina è cantata da Amanda Forsythe, esperta nel repertorio barocco con punte in altri ruoli di soprano lirico-leggero. Proprio questo suo sangue barocco le porta a avere un’emissione con un vibrato talvolta strettissimo, che forse non giova a tutta la parte trasognata e estremamente lirica di Pamina: ragguardevoli, tecnicamente, le messe di voce, come quella al primo incontro con Sarastro. La Forsythe, comunque, esegue una convincente Pamina, come dimostra la resa dell’aria «Ach, ich fühl’s, es ist verschwunden». Tamino è un Juan Francisco Gatell in grande spolvero, con voce piena e centrata (eccetto qua e là), acuti squillanti – come quelli che aprono l’opera nella scena del mostro – e la consueta importante presenza sul palcoscenico; le sue doti canore possono essere ammirate in particolare nell’aria «Dies Bildnis ist bezaubernd schön». Nel ruolo della Regina della Notte, Christina Poulitsi strappa irrefrenabili applausi al pubblico, meritati non solo per la potenza della sua voce, ma, soprattutto, per l’impressionante intonazione, sgranatura e agilità del suono nella celebre serie di picchiettati dell’aria «Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen»; la prima delle due, «Zum Leiden bin ich auserkoren», tecnicamente persino più complessa, la vede destreggiarsi nelle funamboliche variazioni del finale, che sfidano impavide la corda del soprano. La Poulitsi dà prova di notevole tecnica, controllo e potenza. Il Sarastro di Gianluca Buratto è vocalmente statuario: una potenza vocale incredibile, una facilità d’emissione e un’intonazione eccellenti gli permettono di eseguire con agio tutte le difficoltà del ruolo, mantenendo uniforme timbro e potenza. Basti citare, come esempio, l’esecuzione sontuosa di «In diesen heil’gen Hallen». Marcello Nardis veste i panni di un Monostatos ottimo non solo vocalmente, ma anche sul palcoscenico: ho sempre trovato che la sua aria, «Alles fühlt der Liebe Freuden», uno dei gioielli della penna mozartiana. Il Papageno di Joan Martín-Royo non è sempre convincente. Se, infatti, si muove bene sul palcoscenico, a livello vocale risulta a tratti diafano, astenico: gli manca, insomma, quel brio, quel frizzo essenziale nel personaggio dell’uccellatore. Questa mancanza è risultata particolarmente evidente nella cavatina, «Der Vogelfänger bin ich ja»; ma Martín-Royo si riprende già nel duetto con Pamina, per migliorare ancora in «Ein Mädchen oder Weibchen»; il duetto con Papagena, cantata da Julia Giebel, è piacevole e divertente, come dovrebbe essere. I comprimari (tranne i genietti, rispettivamente Giulia Peverelli, Ercole Cortone e Agnese Funari, cui vanno i miei complimenti) sono tutti prodotti del progetto “Fabbrica”, che sta dando buoni frutti. Le tre dame, in ordine Louise Kwong, Irida Dragoti e Sara Rocchi, cantano bene la loro parte e si muovono con piglio sul palco, assecondando le fantasia della regia. Completano la schiera Andrii Ganchuk (L’oratore), Domingo Pellicola (Primo armigero) e Timofei Baranov (Secondo armigero).
Una Zauberflöte, dunque, che allo sperimentalismo visivo/registico unisce un’ottima esecuzione musicale: il pubblico applaude contento.
foto Yasuko Kageyama