L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Soldi, sesso e potere

 di Stefano Ceccarelli

L’Opera di Roma mette in scena una nuova produzione di uno dei capolavori di Wolfgang Amadeus Mozart, Le nozze di Figaro. Stefano Montanari dirige con brio e piglio brillantemente mozartiano un’ottima orchestra e un cast eccellente, ben coeso; Graham Vick fa immergere lo spettatore in una dimensione a tratti surreale, a tratti marcatamente trash, attualizzando la vicenda in una girandola di soldi, sesso e potere.

ROMA, 31 gennaio 2018 – Quando si pensa a Le nozze di Figaro, in genere ci si aspettano pizzi, merletti, sussurri, giochi furtivi, donne frivole ma intelligenti, uomini seduttori e gabbati, il tutto immerso in un brillante palazzo settecentesco a fare da sfondo. Niente di più lontano dalla graffiante e geniale mise en scène che Graham Vick propone per questo nuovo allestimento. Innanzitutto, l’impianto scenico, curato da Samal Blak. Si inizia con un interno assolutamente minimal per passare alla camera da letto dei coniugi Almaviva, con un enorme elefante sullo sfondo che pare irrompere nella sala e un finto camino appeso al soffitto. Il tutto sa di ricco, ricchissimo, pesantemente Kitsch. L’elefante sarà un fil rouge scenico, visto che ne ritroveremo le enormi zampe pendenti dal soffitto, quasi che stesse per muoversi, dall’atto III in poi, fino alla scena del giardino, di shakespeariana memoria. Sembra da attribuirsi a Ivan Andreevich Krylov la prima espressione di quel detto che in inglese suona come Elephant in the room, la cui metafora è stata resa scenografia da Vick/Blak. L’ovvio ‘elefante’ è la mania per le donne di Almaviva, che tutti conoscono, ma che il conte vorrebbe celata, persino mostrandosi magnanimo nell’abolire lo ius primae noctis nei suoi feudi. A mio avviso, l’idea registica di far iniziare l’opera con uno stuolo di cameriere zelanti nel farsi notare dal Conte e di chiuderla con un giardino dove, invece, troviamo cadaveri nudi di donne, appese come piante o sparse qua e là, è la traduzione scenica (un po’ come l’elefante) del concetto di ‘usa e getta’ che il Conte attribuisce al sesso femminile. In un certo senso, questa versione registica pone molto l’attenzione sulla figura di Almaviva, che appare come il centro propulsivo delle reazioni degli altri personaggi. L’idea di reificare il detto ‘elefantiaco’ e la possibilità di acquistare a piacimento il corpo femminile hanno certamente un portato di critica sociale ben maggiore rispetto alla pur simile reificazione che Vick propose con la sua mise en scène del Così fan tutte (leggi la recensione), dove il sottotesto metaforico diventava scenografia e regia (cioè, la scuola degli amanti).

Se l’idea può far storcere il naso ai palati più tradizionalistici, a Vick va il merito indiscusso di grande talento registico. Le trovate che attirano inevitabilmente l’attenzione sono molte. La sfrontata e sensuale virilità del Conte, interpretato da Andrey Zhilikhovsky che ne ha il perfetto physique du rôle; la rappresentazione di Don Basilio come un lascivo effeminato, che vivacizza questa figura generalmente relegata in secondo piano; la disinvoltura della Contessa nelle attenzioni verso Cherubino, dipinto, a sua volta, come un millennial in piena crisi ormonale (la celebre canzone d’amore la canta con un microfono, come se fosse un karaoke). Insomma, un turbine di risate fino alla fine. Proprio il finale però, forse, ha un neo nella mancata resa scenica del buio nel giardino, necessario ai vari scambi ed equivoci.

Veniamo, ora, alla parte prettamente musicale. Incredibile, divertente, spumeggiante, brillante la direzione di Stefano Montanari, che si conferma ancora una volta maestro in questo repertorio comico. L’abilità nel variare l’accompagnamento nei recitativi e il piglio fresco e disinvolto nell’esprimere il frizzo di emozioni che la partitura mozartiana presenta, sembrano per lui quasi doti naturali: e quando v’è naturalezza senza sforzo, il gioco è fatto. L’arte di Montanari si vede nei particolari, come negli accenti, nei respiri, nei tempi che imprime alla celebre ouverture; ma anche nell’accompagnamento alle voci, nei passi concertati, nel ductus generale, sempre vivace: vorrei, in tal senso, fare l’esempio del finale II, che reputo fra i passaggi più belli che siano mai stati scritti da un essere umano, dove si succedono colpi di scena continui e repentini ingressi vocali e orchestrali, il tutto affrontato da Montanari splendidamente. Orchestra e coro dell’Opera di Roma risultano ottimi.

Ora, il cast vocale. Il già citato Conte di Almaviva è interpretato da Andrey Zhilikhovsky, dalla voce piena, brunita e brillante, capace di disegnare virilmente un personaggio che spesso è letto con un’aura eccessivamente senile. Della sua interpretazione vorrei ricordare l’inizio del terzo atto, dove si colgono tutti gli accenti del personaggio, dall’abbandono all’eros, alla delusione e alla volontà di vendetta («Vedrò, mentr’io sospiro»). La Contessa di Almaviva è cantata da Federica Lombardi. Allo struggimento amoroso e alla delusione precipue del personaggio, incarnate dalla languida cavatina «Porgi, amor, qualche ristoro», che la Lombardi affronta con voce tonda, sonora, l’interprete è capace di donare piacevole diletto anche con il lato più frivolo (anche su un piano meramente attoriale), che si traduce in un canto frizzante e leggero, come nella dettatura del finto biglietto (lo squisito duettino «Canzonetta sull’aria» con Susanna). Una performance, insomma, assolutamente positiva. Elena Sancho Pereg canta una Susanna spigliata, ben centrata vocalmente (riesce a dosare bene un naturale vibrato, talvolta assai stretto), svettante nelle regioni acute con piacevole naturalezza. Inutile elencare tutti i duetti, i concertati e i vari momenti in cui Susanna canta, ché sono molti. Due, però, mi fa piacere commentarli meglio: il divertentissimo duettino con Marcellina, dove la Pereg mostra la sua capacità di fraseggiare con freschezza, e la stupenda serenata finale, «Deh vieni, non tardar, oh gioia bella», in cui l’interprete coglie una morbida linea di canto, del tutto piacevole. Il Figaro di Vito Priante è scenicamente e vocalmente vivace, tondo, compiuto: un timbro scuro, duttile, versatile a svariate sfumature, rende possibile a Priante gustare tanto le screziature dei geniali recitativi, che imprimere una robusta linea di canto nei vari momenti dell’opera. In tal senso, oltre alla celeberrima aria «Non più andrai farfallone amoroso», letta con vivace gusto mimico e virtuosismo vocale, colpisce l’energia interpretativa dell’aria «Aprite un po’ quegl’occhi». Complimenti, dunque, a questo baritono dall’innato gusto comico. Plauso anche al Cherubino di Miriam Albano, non solo per una calda linea vocale che rende piena giustizia all’adolescente ardore del paggio, ma soprattutto per la non comune dote attoriale che le rende possibile divertire assai nella parte: le due arie, «Non so più cosa son cosa faccio» e «Voi che sapete», sono lette con notevole perizia. La Marcellina di Patrizia Biccirè è perfetta scenicamente, ma talvolta opaca vocalmente; il Don Bartolo di Emanuele Cordaro è semplicemente perfetto, regalandoci una stupenda «La vendetta, oh la vendetta», tanto per potenza vocale quanto per perizia virtuosistica. Fra i comprimari vanno ricordati, in particolare, il Don Basilio di Andrea Giovannini, straordinario interprete, e la piccante Barbarina di Daniela Cappiello.

La produzione, quindi, è ben equilibrata tanto nel cast vocale, quanto nell’accompagnamento musicale e nella preparazione registica. I calorosi applausi a tutti gli interpreti sono ben tributati.

foto Yasuko Kageyama


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