L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Rubar con garbo e a tempo

 di  Andrea R. G. Pedrotti

Spiccano le prove dell'esperto Alberto Gazale, al suo secondo incontro con Falstaff, e del giovane Paolo Ingrasciotta, Ford, in una produzione dell'ultima opera verdiana visivamente gradevole, ma penalizzata da una concertazione poco felice e da un cast non sempre all'altezza.

BRESCIA, 18 novembre 2018 - Come quartultimo titolo della Stagione d’opera e balletto, presso il Teatro Grande di Brescia, è andato in scena Falstaff di Giuseppe Verdi, nella produzione di Roberto Catalano.

Il regista ha trasposto le vicende approssimativamente agli anni ’80 del XX secolo, ma mantenendo Winsor come cornice delle scorribande di Sir John. La Giarrettiera è un moderno locale con tavolo da biliardo, mentre le comari si ritrovano in una sorta di circolo ricreativo borghese con campo da volano, SPA e solarium. I quadri sono sostanzialmente rispettati, salvo il finale, quando tutti gli interpreti, coro compreso, si trovano a combattere una gigantesca battaglia di cuscini su un letto dalle dimensioni eguali al palco.

Più interessante, e originale, la caratterizzazione delle due voci gravi principali: Falstaff e Ford. Per quanto riguarda il primo viene accentuata la sciatteria, il disordine, l’inurbanità nei modi e la scarsa cura per l’igiene, mentre il secondo, in maniera palesemente antitetica, appare un soggetto dagli evidenti tratti tipici di una personalità ossessivo compulsiva. Ford non sopporta nulla che possa intaccare il nitore degli ambienti e dei suoi abiti (rigorosamente color pastello), o la simmetria di ciò che lo circonda; per esempio nel momento in cui, alla fine del secondo atto, dovrebbe muovere circospetto, unitamente ai suoi sgherri, per scostare il paravento dietro il quale sospettava si trovasse l’impenitente drudo della consorte, si attarda a sistemare i presenti, in modo che essi siano perfettamente ordinati nella stanza. Oltre a questo Ford appare introverso e impacciato, contraltare manifesto di un Sir John Falstaff sfrontato e lassista all’eccesso.

Una regia, dunque, nel complesso adeguata a un teatro di provincia, ma che, in un contesto di maggior importanza, dovrebbe abbandonare la diffusa sensazione di “vorrei ma non posso” che si riscontra in numerose idee sparse, ma che rimangono in embrione, senza svilupparsi appieno.

Non convince la concertazione di Marcello Mottadelli, il quale non riesce a mantenere una coesione sufficiente fra le sezioni orchestrali, non palesa mai una linea musicale coerente, la dinamica è monocorde e l’agogica non soddisfa. Due esempi per tutti sono la romanza di Nannetta “Sul fil d'un soffio etesio”, eseguita troppo velocemente e senza sfumature, parimenti al principio dell'ultimo quadro, quando Falstaff si ritrova intento a contare i rintocchi delle campane. Il tempo impresso dal direttore, infatti, non si accordava con l'enumerazione scandita in partitura e costringeva il cantante a un'accelerazione innaturale sulle parole "sette botte". Oltretutto si riscontra un notevole scollamento fra buca e palcoscenico, con tutti i numeri d’assieme superiori al terzetto abbandonati all’anarchia e alla confusione.

Alberto Gazale (Falstaff) appare l’unico interprete della compagnia a non soffrire le mende della concertazione, forte delle note capacità attoriali che da sempre l’hanno caratterizzato e di un fraseggio tali far emergere la personalità del corpulento Sir inglese. Prova di una gestione dei fiati tecnicamente sicura è l’attacco di “Quand’ero paggio”, in cui il direttore decide di staccare un tempo assai complesso da tenere senza rischiare un ritardo sistematico. Sebbene l’artista sia riuscito a emergere anche in questo contesto, sarebbe sicuramente interessante riascoltare Gazale nello stesso ruolo, ma in una situazione musicalmente più agevole.

Bene anche Paolo Ingrasciotta (Ford), molto bravo nel seguire l’idea del regista e a renderne al meglio la caratterizzazione “ossessivo complusiva”. Vocalmente si difende con onore, rendendosi protagonista, assieme a Gazale, del momento più felice della serata, ossia il primo quadro del secondo atto, generalmente ambientato alla Giarrettiera - qui ritroviamo solo un vecchio televisore e una gran sporcizia, forse l’alloggio di Falstaff alla locanda.

Negativa la prova dei due giovani amanti Maria Laura Iacobellis (Nannetta) e Oreste Cosimo (Fenton), che non riescono mai a trasmettere il romanticismo e l’impertinente elegia del loro adolescenziale rapporto di coppia. Se il canto della Iacobellis appare semplicemente monocorde, seppur corretto, Cosimo, oltre a una sostanziale analgesia espressiva, palesa notevoli difficoltà d’intonazione e di fraseggio.

Fra le comari è buona la prova di Daniela Innamorati (Quickly) e sufficiente quella di Caterina Piva (Meg).

Peggior elemento in assoluto del cast risulta Sarah Tisba (Alice), che si trova in palese difficoltà nella gestione dei fiati, risulta quasi inudibile in dei centri sostanzialmente declamati. La posizione e la proiezione del suono risultano accettabili (non di più) solo in alcuni acuti ben centrati, ma quando l’interprete anela a intenzioni di fraseggio nel registro centrale, tutte le difficoltà si palesano. Di contro è da apprezzare l’abilità scenica.

Completavano il cast Ugo Tarquini (Cajus), Cristiano Olivieri (Bardolfo) e Pietro Toscano (Pistola).

Molto bene, per amalgama e qualità vocale, il coro preparato da Massimo Fiocchi Malaspina.

Per la realizzazione dell’allestimento, il regista si è avvalso della collaborazione di Emanuele Sinisi (scene), Ilaria Ariemme (costumi) e Fiammetta Baldiserri (luci).

foto Leila Sormani


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