Giustificati dalla crisi di coppia
di Francesco Lora
Parando i coniugi Macbeth dietro un dramma personale, la regìa di Michieletto, al Teatro La Fenice, fa sabotaggio del significato pedagogico nell’opera di Verdi. Volutamente monocorde la direzione di Chung, e un protagonista eccellente nell’esperto Salsi.
VENEZIA, 27 novembre 2018 – Cosa c’è dietro il potere tirannico, agognato ed esercitato, nel signor e nella signora Macbeth? Nel nuovo allestimento che ha inaugurato la stagione del Teatro La Fenice – cinque recite dal 23 novembre al 1° dicembre – Damiano Michieletto s’è inventato una personale versione dei fatti: la causa va individuata nella genitorialità cercata, agognata, delusa; sfociata in invidia per la prole degli altri; degenerata nella passiva depressione di lui e nella follia distruttrice di lei. Un’onnipresente bambina coi capelli biondi e il vestitino rosso, ossessivamente moltiplicata, balena come un fantasma peggiore della progenie di Banco; e fin dalla sortita la Lady è assistita sia dalla Dama sia dal Medico, che invano tenta di disciplinarla nel consumo di potenti psicofarmaci. Con le stilizzate scene di Paolo Fantin, gli odierni costumi di Carla Teti e le livide luci di Fabio Barettin, l’operazione funzionerebbe, se non fosse che in tal modo il Macbeth di Verdi (versione del 1865), con quel suo libretto così attento a seguire l’originale di Shakespeare, finisce per ammettere entro la propria drammaturgia materiale estraneo e superfluo, e per veder sacrificata in suo nome l’analisi della folta e favolosa serie di spunti autentici. Il significato pedagogico stesso ne esce pericolosamente sabotato: la furia sterminatrice dei coniugi Macbeth non dipende, infatti, da una crisi di coppia o da una malattia mentale – ossia dall’inerte jolly buono a ogni uso teatrale – bensì da una perversa intenzione che cementa il rapporto tra i due e che è tutta da condannare, mai da giustificare. Di simili personaggi che girano in coppia è pieno il mondo: li si teme e li si tace, e proprio il teatro dovrebbe denudarli in scena. Davvero Michieletto non vi si è mai imbattuto, così da preferire caratterizzazioni ben più esili?
Con suggestioni infiltratesi durante le prove o con esplicite richieste di riassetto testuale, è forse l’opinione registica stessa a connotare la lettura musicale di Myung-Whun Chung. E a toglierle interesse. L’orchestra della Fenice è spronata a procedere forte, scabra, plumbea, violenta, come la terribile storia che va accompagnando; ma così il vocabolario espressivo si autoimpone anche un non richiesto limite, accantonando le occasioni di sfumatura e virtuosismo. Per tacere di abusi sulla partitura ormai passati di moda tra le grandi bacchette: la cabaletta di Lady Macbeth perde la ripresa e sbilancia la scena; il Ballo dell’atto III – una pagina musicale memorabile, al cui varco Chung era atteso – è tagliato di netto; la parte della Prima Apparizione è liberamente trasposta all’ottava superiore, ed è dunque cantata in registro femminile anziché – com’è scritto – di basso; tra la Battaglia e il Finale ultimo è inserito il monologo «Mal per me, che m’affidai» (versione del 1847), stralciato da Verdi per non concedere enfasi morale all’antieroe che tira le cuoia nel giubilo comune. Se non altro, quest’ultimo brano diviene un apice interpretativo grazie all’opprimente passo di Chung, ai sinistri fiati dell’orchestra e al patrimonio vocale di Luca Salsi: dopo aver esplorato l’opera in entrambe le sue versioni, e dopo averla capillarmente ristudiata con Riccardo Muti, il baritono parmigiano domina la parte protagonistica in perfetto equilibrio tra l’esibizione di mezzi importantissimi, per smalto e volume, e la dimostrazione di un fraseggio vario e sottile. La lezione con Muti sembra invece dimenticata da Vittoria Yeo, la cui Lady preferisce ora il gesto sopra le righe a quello soppesato. Senza zampate ma pieni di dignità Simon Lim come Banco, Stefano Secco come Macduff e Marcello Nardis come Malcom.