L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Tutti bartoliani nel nuovo teatro

 di Francesco Lora

Il Teatro Galli di Rimini è stato finalmente restituito al pubblico dopo un accidentatissimo percorso di ricostruzione. L’inaugurazione ha riportato in Italia la diva delle dive, Cecilia Bartoli, con una Cenerentola di Rossini in versione semiscenica: eccellente, in particolare, l’arte dei colleghi Edgardo Rocha e Alessandro Corbelli.

RIMINI, 28 ottobre 2018 – Con una doverosa ma sobria e giustamente orgogliosa cerimonia civile in testa allo spettacolo, il Teatro Galli di Rimini è stato inaugurato il 28 ottobre, finalmente restituito al pubblico dopo un accidentatissimo percorso di ricostruzione. Poi, mentre le mura stuccate e dorate profumano ancora di nuovo, i riflettori sono stati scippati dalla Cenerentola di Rossini e soprattutto dal ritorno in Italia di Cecilia Bartoli – il suo sangue è anche riminese – per interpretare un’opera completa: data unica a Rimini e in Italia, acciuffata nell’àmbito di una tournée srotolata tra Martigny, Lucerna, Madrid e Barcellona. La Sagra musicale Malatestiana, la quale in questa Cenerentola ha più che parte, ha messo a segno un colpaccio. Come protagonista dell’opera, la diva delle dive spadroneggia innanzitutto per simpatia espositiva e tenerezza d’accento, con quella sua capacità di riprodurre la naturalezza espressiva dentro una macchina di sovrumano artificio tecnico: è la primadonna rossiniana perfetta; a modo suo, dirà qualcuno, ma di certo dettando legge a moda, gusto, classe, mercato e colleghe. Dopo aver condotto con leggerezza la commedia, è nel rondò finale che monta in cattedra e lascia a bocca aperta tra gli sgranatissimi gorghi di trilli e semicrome.

A costituirle intorno una festa è anche la mise en espace di Claudia Blersch. L’allestimentino, fatto per girare in sale da concerto, è ridotto al minimo indispensabile quanto a gesti, costumi e attrezzeria, ma dimostra orecchi attenti al ritmo rossiniano, verve pungente e mai a rischio di farsaccia, conoscenza del testo e dei precedenti, insomma una compiuta lettura teatrale, che nulla fa mancare pur entrando in punta di piedi. Di vero interesse, a sua volta, è il ricorso a un’orchestra di strumenti originali, costituita dai monegaschi Musiciens du Prince, assai vicina alle iniziative della Bartoli e ancora una volta affidata alla bacchetta di Gianluca Capuano. Volumi e timbri sono quelli, insieme lievi e mordenti, effettivamente interpellati dall’autore ai giorni suoi. Detto del materiale, si apprezza anche la dedizione del concertatore, che pare però più intento a difendersi in un titolo estraneo al suo barocco d’elezione che a illustrare con polso fermo lo scoppiettio del dettato rossiniano. Nell’orizzonte filologico, spiace l’occasione persa di recuperare le briciole: si allude al coretto all’inizio dell’atto II (quello dove i «birbanti» ridono «sotto cappotto») e al sorbetto della sorellastra Clorinda, composti dal collaboratore Luca Agolini e quasi sempre tagliati; il programma di sala, con il suo libretto integrale, che lo ribadisce alla mente.

Eccellente è il Don Ramiro che porge il braccio alla Bartoli: Edgardo Rocha coniuga la freschezza giovanile del porgere innamorato a una certa fiera alterigia, adeguata al rango principesco del personaggio; coloratura e sopracuti, manco a dirlo, compiacciono per sicurezza. Senza rivali è poi il Dandini di Alessandro Corbelli: il passare degli anni ha velato un poco il timbro ed eroso un tantino i fiati; ma l’attore è un congegno comico formidabile, ma l’ornamentazione è da lui tuttora sciolta con una souplesse illuminante, ma l’emissione è vera scuola di belcanto. Al cospetto di tanta sagacia scenica e forbitezza stilistica, cattiva diviene allora la giustapposizione con il Don Magnifico di Carlos Chausson, sprecato in una macchietta ridicola senza meschina terribilità, e risolto tra gigionesche derive estranee all’idiomatismo italico. Un errore anche la scrittura del pur brillante José Coca Loza come Alidoro: se gli si fa cantare la grande aria seriore di Rossini in luogo dell’arietta di Agolini, la parte esce dall’originale rango comprimario e va a cadere larga sui suoi mezzi. Spassose nel darsi l’un l’altra la spalla comica, e nondimeno inappuntabili nella resa vocale, le sorellastre Clorinda e Tisbe erano Martina Janková e Rosa Bove. Il divertimento contagiava il Coro dell’Opéra di Monte Carlo, e negli applausi finali il delirio rendeva tutti fidi bartoliani.


 

 

 
 
 

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