Ritorno al futuro
di Roberta Pedrotti
Vuoto e sgargiante, l'allestimento scenico firmato da Fabio Cherstich e AES+F promette uno sguardo innovativo sull'opera pucciniana che invece troviamo, con concretezza, nella bella concertazione di Valerio Galli, nelle prove di Gregory Kunde, Mariangela Sicilia e Hui He.
BOLOGNA, 28 maggio 2019 - C'è modo e modo per guardare al futuro, ci sono le parole, le dichiarazioni d'intenti, le apparenze, e poi c'è la sostanza, ponderata, fondata e lungimirante. Quella sostanza che non abbiamo trovato nelle ambizioni avveniristiche della Turandot coprodotta dal Comunale con il Massimo di Palermo [leggi la recensione: Palermo, Turandot, 27/01/2019] e del Badisches Staatstheater Karlsruhe, firmata dal regista Fabio Cherstich e dal collettivo artistico AES+F. Sembra di trovarci di fronte non a una drammaturgia fresca, creativa, innovativa, bensì a una signora invecchiata che si trucca vistosamente e si ostina a indossare abiti e a usare gerghi giovanili, anche se magari alla moda di qualche anno fa. Così appare la Pechino di un “tempo delle fiabe” collocato in uno sgargiante prossimo futuro in cui nulla avviene: il coro se ne sta fermo sulle gradinate, i solisti al centro del palco sono lasciati a loro stessi con indicazioni sommarie. Nessun lavoro di autentica regia risulta pervenuto, nessuna lettura dei personaggi che appaia, sotto i costumi non convenzionali, diversa dalla stanca ripetizione del già visto (anche meno, giacché in tutto il duetto finale del disgelo l'unica a muoversi è Liù che, da morta, si alza e se ne va). Tutto ciò che avviene avviene sugli schermi, dove scorrono animazioni invasive e non sempre convincenti, anzi talora risibili o distraenti: può avere una sua suggestione la panoramica, seppur non originalissima, sulla metropoli fantascientifica; molto meno persuasive risultano le animazioni digitali, soprattutto ai filmati di attori in carne integrati nell'ambiente virtuale succede la completa rielaborazione delle stesse immagini. Anzi, quella che dovrebbe essere la denuncia della violenza sulla donna evocata dal racconto di Turandot sembra più che altro un patinato catalogo d'abbigliamento intimo, rinnovato a colori nel trionfo dell'amore che si esplicita, chissà perché, anche in una colossale donna-gatto, in un ballonzolante bambolotto e in una specie di donna-vegetale. Il tutto, bisogna dirlo, senza che il concetto piuttosto fragile sia almeno sostenuto da una qualità di realizzazione in grado quantomeno di offrire un certo qual stupore, una gratificazione estetica.
Nulla di veramente nuovo e interessante si vede, dunque, ma, per fortuna, la situazione si ribalta sul versante strettamente musicale.
Valerio Galli, sul podio, non è interessato a stupire: è interessato a Puccini. Ama le voci, si sente, ma non è un accompagnatore passivo e acquescente. È, piuttosto, un complice, un accorto concertatore che sa mettere tutti in condizione di dare il meglio di sé nella cura amorosa del dettato pucciniano. Coniuga respiro melodico e incalzare del dramma, gratificazione vocale e visione d'insieme. La compattezza e la consequenzialità della partitura, la sua modernità, non viene meno, tuttavia non si trasforma in una gabbia e lo si avverte in maniera palpabile quando la trionfale chiusa di “Nessun dorma” suscita la spontanea ovazione del pubblico, un'ovazione che si concentra in pochi istanti, perché quell'aria non ha solo l'acuto e il “Vincerò”, ma ha anche una coda magnifica che si salda al repentino sopraggiungere delle tre maschere in un continuum che non può essere spezzato senza tradire il disegno pucciniano. Eppure, se il direttore non si ferma, se l'applauso si deve spegnere presto, non si avverte un torto fatto al tenore, il cui trionfo c'è tutto, bensì un omaggio all'opera, goduta senza perdere una nota, senza sprecare una transizione. Perfino i momenti più abusati risuonano freschi come la prima volta, e siamo grati a Gregory Kunde per averci restituito il brivido di “ma il mio mistero è chiuso in me”, di una melodia che l'abuso aveva usurato, banalizzato. Il tenore statunitense saetta acuti su acuti e scatena il pubblico, ma non perché mostri i muscoli – anche se lo squillo è davvero perentorio – ma perché esprime così la natura assertiva, vitale del Principe Ignoto. E perché questi acuti sono il culmine di una linea vocale tornita con intelligenza e nobiltà, pensata sempre nel legato e nella fluida articolazione dinamica, perché la frase ferma ed eroica fa il paio con il sussurro dolcissimo, come quel repentino “o mia piccola Liù” a mezzavoce sul corpo esanime della piccola schiava. Questa è Mariangela Sicilia, che si conferma soprano pucciniano di prim'ordine, dall'emissione morbida e rotonda, dal timbro pieno, dai filati facili e sonori, ma soprattutto interprete intensa, capace di conferire il giusto mordente alla forza d'amore che anima Liù. Da “Perché un dì, nella reggia, m'hai sorriso” a “Tanto amore, segreto” dipana una personalità che non è di vittima sacrificale, ma di eroica, assoluta passione, esatto contraltare della negazione violenta della Principessa di gelo e dell'altrettanto violento fuoco conquistatore di Calaf.
Nei panni di Turandot, Hui He è una gradita sorpresa. Gioca bene le sue carte di soprano più lirico che drammatico ma avvezzo a parti onerose come Aida e Cio Cio San. Per quanto aspro, l'impegno nell'opera di Puccini è più circoscritto, concentrato nella scena degli enigmi e nel duettone finale, consentendo al soprano di dosare bene le proprie forze e assecondare con la propria qualità timbrica la morbidezza lirica che è presente anche in questa linea pucciniana, ma lasciando trasparire anche spigoli e asperità. Un po' più gravoso, ma sempre ben risolto, può risultare il duetto alfaniano: peccato che il sofferto, intenso “primo pianto” faccia a pugni con le distraenti floreali proiezioni su maxischermo del solito catalogo di biancheria intima, peluche e pupazzi.
Bene il Timur di In-Sung Sim e l'Altoum di Bruno Lazzaretti, bene le maschere di Vincenzo Taormina, Francesco Marsiglia e Cristiano Olivieri, il Mandarino di Nicolò Ceriani; il principe di Persia è Massimiliano Brusco, le ancelle – in tailleur fluo e borsetta come un'Elisabetta d'Inghilterra sotto acidi – di Silvia Calzarava e Lucia Viviani. I complessi del comunale, orchestra, coro e coro di voci bianche (in rosa e azzurro, con tamburi e retini da spiaggia) fanno tutti un'ottima figura nella lettura incalzante e raffinata di Galli.
Il pubblico gradisce e se le ovazioni per i tre protagonisti e il direttore ci vedono partecipi con entusiasmo, stupisce invero la buona accoglienza per gli artefici della messa in scena.
foto Andrea Ranzi/ studio Casaluci