Classiche conversazioni viennesi
di Luigi Raso
Il quartetto Terpsycordes, in cui si armonizzano alla perfezione strumentisti di diverse provenienze, offre un'interessante lettura dei quartetti di Haydn, Beethoven e Schubert per la stagione dell'Associazione Alessandro Scarlatti.
NAPOLI, 7 febbraio 2019 - Se il quartetto d’archi può essere assimilato, secondo la definizione del compositore statunitense Charles Ives, a “Quattro uomini che conversano, discutono, litigano, si arrabbiano, si stringono le mani, si zittiscono, poi si arrampicano su per la montagna a riveder le stelle”, il concerto di stasera del Quartetto Terpsycordes - il nome deriva dalla fusione tra Terre (terra), psy (spirito) e cordes (corde) - è un’articolata disquisizione sulla tradizione viennese del quartetto, partendo dal padre Franz Joseph Haydn fino al giovanissimo Franz Schubert, passando per titanico Beethoven. Un raffinato discorso musicale che si dipana tra il 1772 del quartetto haydniano e il giugno del 1826, quando Schubert scrisse l’ultimo dei suoi quindici quartetti per archi. E, al centro, il Beethoven dei quartetti “di mezzo” (siamo nel 1810) per il crepuscolare e inquieto quartetto in fa minore op. 95 “Serioso”.
La “conversazione musicale” concertistica vera e propria è preceduta da una breve e interessante chiacchierata tra Luigi Amodio, Direttore del Science Centre di Città della Scienza di Napoli, e il primo violino del Terpsycordes, Girolamo Bottiglieri, sui temi della democrazia interna nel quartetto d’archi e sulla sintonia nell’ascolto che si crea (o che non si crea) tra pubblico e artisti durante e al termine dell’esecuzione.
Ad aprire il concerto è il Quartetto in sol minore op. 20 n. 3 di Franz Joseph Haydn: una pagina che dà modo al Terpsycordes di creare una miscela timbrica innovativa, a tratti ardita, tra i quattro strumenti. Un suono netto, tagliente, frutto della assidua frequentazione del repertorio novecentesco al quale il Terpsycordes si dedica con attenzione e curiosità.
Pur essendo i membri del complesso cameristico figli di quattro distinte scuole d’archi (italiana quella del primo violino Girolamo Bottiglieri, bulgara quella del secondo violino Raya Raytcheva; è statunitense la violista Marion Stienne, svizzero il violoncellista François Grin) l’omogeneità del timbro è un dato distintivo immediatamente riconoscibile. Il Terpsycordes dà una lettura limpida, serena, eppure ricca di contrasti che confermano la fama di “umorista musicale” (copyright di Leonard Bernstein) di Haydn. Il compositore austriaco, anche in questo quartetto del 1772, si diverte a prendere l’ascoltatore di sorpresa: quando ci si aspetta un piano ecco che arriva un forte/fortissimo, e viceversa, in un gioco di rimandi e di allusioni figlio della raffinata società settecentesca ed eseguito ricorrendo a sonorità essenziali, asciutte, quasi scabre per la loro immediatezza, disegnando articolati sonori limpidi e leggeri.
Il meraviglioso Poco adagio, una lunga aria cantata, permette al primo violino e al violoncello di esaltare la cantabilità del movimento, anticipatrice delle meditazioni degli adagi mozartiani e beethoveniani prossimi a venire. Una lezione di purezza violinistica, di suoni chiari e scolpiti che ricordano la pulizia strumentale del violinismo dello spagnolo-italiano Felix Ayo.
Intercorrono meno di quarant’anni tra il quartetto in sol minore op. 20 di Haydn e quello in fa minore op. 95 di Beethoven: è una composizione della piena maturità del compositore di Bonn, crepuscolare, stringata e impetuosa nell’incipit, ricca di chiaroscuri. Quella serenità, mista a umorismo, propria del quartetto di Haydn in Beethoven è presente soltanto a tratti ed è la conquista di un energico combattimento: dopo il ritmico Allegro con brio (primo movimento) e l’Allegretto ma non troppo (secondo movimento) denso di inquietudini, si giunge all’Allegro assai vivace ma serioso che ha un andamento tortuoso, perfettamente evidenziato, nell’esaltazione dei contrasti, dal Terpsycordes. L’armonia sboccia nel Trio, dal suono corposo e venato dalle brune screziature della viola e del violoncello. Il Larghetto espressivo, invece, appare troppo poco lancinante e appassionato rispetto, ma eccessivamente teso ad approdare al breve Allegretto agitato finale.
L’ excursus nel mondo del quartetto viennese giunge all’ultimo quartetto, in sol maggiore op. post. 161 D. 887, di Franz Schubert, composto dal più viennese dei musicisti viennesi nel giugno del 1826. Una partitura pervasa da un senso di serenità interiore, dalla scrittura strumentale complessa, dalle suggestioni quasi orchestrali: il ricorrente ricorso al tremolo e allo staccato ben si addice alle corde espressive e sonore del Terpsycordes. La monumentalità della composizione è un compendio delle potenzialità espressive del genere: il Terpsycordes è bravo a esaltarle tutte, ad accentuare l’aspetto melodico e danzante, dalla raccolta atmosfera intrisa di malinconia tipicamente viennese, dell’Andante un poco moto (terzo movimento): il violoncello canta dolcemente e, all’interno della conversazione quartettistica, i violini e le viole interrompono con veemenza il discorso. Il Terpsycordes fa ben percepire il contrasto tra il dolce tema iniziale e le irruzioni, sonore e ritmiche, degli altri componenti, per poi ricomporsi tutti serenamente. L’aspetto spiccatamente danzante (tempo in 6/8), una tarantella, ritorna nell’Allegro assai in sol maggiore del finale con impeto e precisione nella tenuta ritmica generale.
Molti applausi dopo l’ultimo accordo finale.
Il leader della formazione - anzi, come si è definito nella chiacchierata introduttiva al concerto, il primus inter pares - Girolamo Bottiglieri regala un bis: da Vienna si vola verso l’Argentina di Astor Piazzolla per Four for Tango, composto dall'argentino per il Kronos Quartet. Si tratta di un brano ricco di elementi percussivi e effetti sonori stridenti, ottenuti tirando l’archetto dietro il ponticello, elementi decorativi innestati nell’architettura costituita dall’amato e struggente tango.