L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Vox populi

 di Antonino Trotta

Ospiti dell’Unione Musicale di Torino, Leonidas Kavakos ed Enrico Pace sfogliano pagine di Brahms, Skalkottas, Bartók ed Enescu per un impaginato dalle sfumature squisitamente folkloristiche.

Torino, 20 Marzo 2019 – È facile convincersi della fertilità dell’influenza popolare sulla musica di ogni epoca solo pensando alla quantità di danze che scalpitano sulle partiture ma, nel corso dei secoli, lo scambio di suggestioni tra vissuto e pensiero artistico si articola secondo logiche via via ben più complesse della mera mutuazione di forme melodico-ritmiche. Dalla fine del Settecento in poi l’idea di nazione e gli ideali di identità nazionale che dilagano in Europa e fuori, risvegliano nei poeti del pentagramma l’interesse per la produzione musicale popolare, non più intesa esclusivamente come inesauribile fonte di materiale, bensì come idioma in cui la cultura di una comunità finisce con l’identificarsi. L’uomo prende coscienza di sé, la musica si fa meno pura e immateriale e il crescente impegno etico che ambiziosamente lo spirito compositivo guadagna conduce a declinazioni sfaccettate dello stesso tema: l’Europa di Chopin, Liszt, Brahms, tende a filtrare, ad esempio, attraverso le coordinate della musica colta, quasi in un processo di sprovincializzazione, tutto il ciò che l’esperienza imprime nella memoria; in Russa, contemporaneamente, il nazionalismo di ispirazione romantica assumerà un carattere per certi aspetti addirittura aggressivo e talvolta isolante; nella penisola balcanica e nell’Europa centro-orientale (con Dvoràk, Enescu, Kodàly, Smetana, Janáček), rinnovate le visioni politiche e sociali dell'ottocento che pian piano spostano l'ottica dall'imperialismo al proletariato, la ricerca di una fisionomia collettiva nella musica favorisce la nascita dell’etnomusicologia, di cui Bartók è capostipite.

Sfogliando pagine di Brahms, Skalkottas, Bartók ed Enescu, Leonidas Kavakos ed Enrico Pace, ospiti dell’Unione Musicale di Torino, offrono un’interessante panoramica su quanto accade, limitatamente al versante europeo, nella relazione tra musica popolare e musica colta.

La sonata in re minore op. 108 di Brahms, terza e ultima delle sonate per violino e pianoforte, sembra completamente avulsa dalla contaminazione folkloristica sugellata dalle celeberrime danze ungheresi, con le quali tuttavia il Presto agitato conclusivo condivide la stessa eccitazione ritmica. In un gioco di equilibri indistruttibili tra pianoforte e violino, il tardo cameratismo di Brahms si manifesta in tutto il suo fervore inventivo. Nell’Allegro iniziale, misterioso e inafferrabile, lo Stradivari “Willemotte” del 1734 si insinua sinistro nella vaporosa foschia delle armonie brahmsiane: se da un lato Kavakos disegna una linea di grande regolarità ed eleganza, forbita nelle dinamiche e nelle agogiche, dall’altro Enrico Pace si arroga l’onere di dipingere uno sfondo in cui il soggetto possa acquistare un significato. È il pianoforte in realtà a rapire l’attenzione in questa sortita: il pianismo di Pace è incisivo, maestoso, risultato di una padronanza tecnica e una raffinata musicalità che s’impone nell’esposizione del tema secondario, nella solennità con cui infervora la sezione centrale, nei rubati degli arpeggi della coda, nella classe con cui conserva tutta la tensione annidata nel primo movimento. Il breve Adagio successivo è invece l’occasione per Kavakos per intavolare una cantabilità luminosa e il violino, incontrastato protagonista, esibisce, nell’ininterrotta arcata melodica, un fraseggio di straordinaria espressività. La superba intesa dei due artisti si palesa quindi nello Scherzo, dove entrambi si stuzzicano in un gioco di smaliziata seduzione e l’alternanza serrata dei due strumenti suona accattivante e leggiadra. Il Presto agitato carica lo slancio dei due attori: le arcate appassionate e le virili percussioni si inseguono in un rutilante evolvere che infiamma la partitura e fa di questo movimento una vera esplosione dionisiaca.

Con la Petite Suite no. 2 di Skalkottas ci si addentra nel cuore del programma. Di scrittura impervia, soprattutto per il violino, continuamente alle prese con passaggi di esigente fabbisogno virtuosistico per tessitura e stile, la suite coniuga elementi di folklore ellenico, immaginario e nazionale in un’architettura pressoché classica. Il prodigioso tecnicismo di Kavakos ottiene qui la massima valorizzazione, non solo per il nitore dell’intonazione o la pulizia dei bicordi, quanto per la capacità di creare colori e sfumature che sembrano sposare deliziosamente l’energia primordiale della partitura.

Segue la Rapsodia no.1, crocevia tra forma bipartita delle Rapsodie ungheresi di Liszt (successione di lassan e friska) e le radici paesane del folklore magiaro di cui Bartók è sommo conoscitore. Nella libertà concessa dalla forma rapsodica, Kavakos e Pace esaltano della trascinante danza rumena non solo l’estro ritmico, ma la solarità della componente agreste, bucolica e naturalistica che in parte connota tutta l’elaborazione musicale autoctona.

Il lirismo di Kavakos si fa poi più accentuato e straziante sonata no. 3 in la minore di Enescu, ultimo capitolo del concerto. I temi orientaleggianti di cui è pregno questo laboratorio linguistico brillano nell’Allegro con brio, il più eccentrico dei tre movimenti, impreziosito ancora una volta dalla perfetta sintonia delle parti nelle serrate progressioni del finale. Il messaggio che però arriva da Enescu oltrepassa i confini del ritratto territoriale per abbracciare una dimensione cosmopolita di larghe vedute: questa sonata, in cui la tradizione colta occidentale convive con quella popolare di derivazione balcanica e orientale, può essere letta come una testimonianza della fecondità con cui diverse culture possono coesistere in uno stesso luogo e la musica, da voce del popolo, si trasforma nella voce dell’integrazione e della coesistenza.

Applausi calorosi per i due artisti – soprattutto da parte dall’entusiasta quota giovanile– che congedano il pubblico torinese non prima di aver eseguito due bis, La Gitana di Kleisler e l’Andante rubato, alla zingaresca dalla Ruralia Hungarica op. 32c di Dohnányi.


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