Ode a Santa Cecilia
di Antonino Trotta
Insieme a Gianluca Capuano e i complessi strumentali di Les Musiciens du Prince-Monaco, la divina Cecilia Bartoli fa il suo straordinario debutto al Ravello Festival: la serata è indimenticabile.
Ravello, 18 agosto 2020 – La perfezione esiste. Se ne potrà ricusare con pervicacia l’esistenza e nello spazio anomalo lasciato dal rifiuto di questo concetto individuare la bellezza della natura umana, ma Cecilia Bartoli umana non è e, in quanto disumana, incredibilmente perfetta. Cos’altro si potrebbe dire di una vocalista eccelsa che non sbava una sola dannatissima nota? Com’altro si potrebbe definire una cantate di rango superiore che nel prodigioso sfavillare della tecnica ha saputo istituire, in virtù della cura dello stile, il culto della parola in grembo alla musica? In che modo ci si potrebbe riferire a una voce che galoppa gloriosa su e giù per lo spartito, ora squillante e luminosa nel registro acuto, ora avvolgente e androgina in quello di petto, quasi soprano e mezzo dimorassero armoniosamente nella stessa ugola? Com’è se non perfetta un’artista che, allorquando il resto non bastasse già a consacrare il mito, è anche indomabile animale da palcoscenico, capace di trasformare un recital in uno spettacolo e uno spettacolo in un evento indimenticabile, nonostante il periodo francamente dimenticabilissimo? Scriverne è davvero ardua impresa giacché un concerto simile è innanzitutto un’esperienza mistica e, tra prodezze vocali e prodigi musicali, si insegue ogni passo della diva divina in stato di sublimazione spirituale e di contemplazione estatica della grazia bartoliana, nemmeno Ravello fosse Međugorje. Già perché dopo i fasti della stagione estiva del San Carlo e la non meno luccicante sfilata di stelle tra i giardini della Reggia di Caserta, Santa Cecilia Bartoli sale sul monte Olimpo della Costiera Amalfitana per debuttare, insieme ai fidatissimi Les Musiciens du Prince-Monaco diretti da Gianluca Capuano, nell’encomiabile Ravello Festival.
Cecilia Bartoli domina la scena per centodieci ininterrotti minuti anche quando a destare le vibrazioni dell’aria sono le sinfonie, i ballabili e i concerti di Händel, Hasse, Telemann, Vivaldi: il florilegio di colori orchestrali, il mordente della concertazione, il fascino timbrico degli strumenti originali – siamo nell’auditorium Oscar Niemeyer dunque niente amplificazione elettronica, olé! – appagano oltremodo l’orecchio ma l’occhio non si distrae mai dalla morsa ineludibile della Primadonna, sempre presente sul palco, impegnata in cambi d’abito – dettati dall’esigenza del ruolo e rigorosamente a vista in quel “camerino” che modella la scenografia – e invenzioni che nella semplicità della loro realizzazione accentuano sì, in termini spiccioli, la magia del teatro, ma ribadiscono anche la vertiginosa statura dell’artista. Del canto di Cecilia Bartoli ci sarebbe ben poco da dire, del resto quando un’interprete di tale levatura dispone di un simile patrimonio tecnico, scenico e culturale non ci sono limiti imponibili alla provvidenza. Al pari del leggendario Farinelli, a cui è dedicata la sua ultima fatica discografica, Ella sfida e duetta con i fiati concertanti: vezzeggia con l’oboe barocco (Rodrigo Lopez Paz) nell’aria di Aci «Lusingato dalla speme» da Polifemo di Händel, fronteggia impavida e sopraffà la tromba naturale (Thibaud Robinne) nell’incendiaria «Desterò dell’empia dite» da Amadigi di Gaula ancoradel Sassone – e qui solo il recitativo è una scarica di adrenalina pura –, si abbandona languida tra le braccia del flauto traversiere (Jean-Marc Goujon) durante la splendida aria di Ruggiero «Sol da te mio dolce amore» da Orlando furioso di Vivaldi, scolpisce la frase e la porge con delicatezza estrema al violoncello (Robin Micheal) che le fa da partner nell’ispirata «What passion cannot music raise and quell!» dall’Ode per il giorno di St. Cecilia HWV76 di Händel. Là dove poi la scrittura vocale non fa appello a una vocalizzazione spudorata, nell’aria di Piacere «Lascia la spina cogli la rosa» da Il trionfo del Tempo e del Disinganno o quella di Cleopatra «V’adoro pupille» da Giulio Cesare in Egitto ad esempio, ecco il virtuosismo estremo trasferirsi tutto nel canto d’espressione e la padronanza totale della prosodia italiana farsi balsamo della musica sicché, nel dipanarsi sì delle arie ma anche nell’incalzare dei magnifici recitativi, il testo inebria la melodia e conduce il canto a vertici miracolosi.
Con la platea in delirio e la schiare di devoti agonizzanti per la consapevolezza di aver udito l’inaudibile, Cecilia Bartoli dà fuoco alle polveri e regala un concerto nel concerto. Così, dopo le mozzafiato gragnole di sedicesimi mitragliate nell’aria di Ariodante «Dopo notte atra e funesta», ella omaggia la terra ospite con una sublime esecuzione di «Santa Lucia luntana», prima di congedare l’ingordo pubblico con l’elettrizzante «A facile vittoria» di Steffani poi evoluta, in sede di duello strumentale con la tromba, in «Summertime» di Gershwin. Serata straordinaria, null’altro da aggiungere.