L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Beethoven per due

di Luigi Raso

Massimo Quarta e Pietro De Maria aprono il ciclo delle Sonate per violino e pianoforte con cui l'Associazione Alessandro Scarlatti celebra il duecentocinquantesimo beethoveniano.

NAPOLI, 20 febbraio 2020 - Sono il violino di Massimo Quarta e il pianoforte di Pietro De Maria a inaugurare, nell’anno dei 250 anni dalla nascita, l’esecuzione integrale delle Sonate per violino e pianoforte di Ludwig van Beethoven per Associazione Alessandro Scarlatti: due concerti nella stagione in corso (il prossimo è previsto al Teatro Mercadante il 21 maggio con il violinista Kristóf Baráti e il pianista Enrico Pace), i rimanenti nella prossima.

Aleggia ancora un refolo di grazia settecentesca di derivazione mozartiana nella Sonata n. 2 in la maggiore op. 12, composta tra il 1797 e il 1798 e dedicata ad Antonio Salieri, mitigato da ardite modulazioni che lasciano intravedere il Beethoven che ha da venire; il dialogo tra il violino e il pianoforte inizia ad essere serrato, il rincorrersi dei due strumenti già incalzante. Quarta e De Maria affrontano l’Allegro vivace con leggerezza; la sintonia tra loro è immediata: il suono del violino di Quarta è luminoso, il perfetto controllo dell’arco consente un ampio ventaglio di dinamiche. Il loro è un Beethoven improntato a una oggettività melodica e delle forme, dominate da pulizia e limpidezza di suono, talvolta tanto nitido da diventare essenziale e immediato per perentorietà sonora (in particolare per il pianoforte). L’elegiaco Andante più tosto del secondo movimento è affrontato con un sostenuto andamento cantabile che, ripulito da eccessi romantici, si impone per la fresca immediatezza delle frasi melodiche. Si ritorna allo spirito frizzante che si era manifestato nel primo movimento con l’ Allegro piacevole che chiude la sonata: qui il pianoforte di De Maria imprime al procedere musicale un tono colloquiante con il violino che si fa via via più insinuante.

Poco più di tre anni separano la Sonata per violino e pianoforte n. 7 in do minore, op. 30 n. 2 (1803) dalla seconda dell’op. 12, eppure sembra appartenere a un’altra era: composta nel 1802, anno in cui la sordità iniziò ad affliggere gravemente Beethoven, sin dalla battuta iniziale denota cupezza e l’attorcigliarsi melodico del breve tema iniziale. Acquisisce energia il dialogo contrastato tra violino e pianoforte; le sonorità si fanno più aspre e taglienti. Il tocco di De Maria e la cavata di Quarta diventano più imperiose: si avverte l’esigenza di maggiore concisione drammatica nell’esposizione dei temi e nel loro sviluppo. La tensione dinamica è in costante crescita, fino a deflagrare in quella sorta di “grido” del violino nelle ultime battute, inseguito da un pianoforte sempre più incalzante. Una momentanea serenità aleggia nell’ Adagio cantabile, dall’incedere elegante, a tratti lievemente danzante. Il pianoforte di De Maria si fa limpido, sostiene e controbatte alle melodie tornite e intense del violino. Eccessivamente secco, nelle aspre sonorità del violino e nel martellìo del pianoforte, appare lo Scherzo che comunque prepara adeguatamente l’esplosione di tensione espressiva dell’Allegro finale, laddove Quarta e De Maria portano ad esasperazione quella cupa atmosfera emotiva già preannunciata nel primo movimento della sonata: le dinamiche si fanno sempre più contrastanti, aumenta la tensione agogica ed emotiva.

La Sonata per violino e pianoforte n. 10 in sol maggiore, op. 96 è l’ultima composizione di Beethoven (composta nel 1812) per questa formazione cameristica e, sin dall’ Allegro moderato, appare pervasa da un soffio di serenità che la fanno accostare, almeno nello spirito, alla Sinfonia Pastorale. Sin dalle batture iniziali, si percepisce un ritorno, dopo anni di sperimentazione, alla rivisitazione dei modelli del passato: un ritorno alle origini dopo aver doppiato il capo, ardito e corrusco, della Sonata a Kreutzer (1802-1803). L’arcata di Quarta si fa più distesa, più sciolta, incline a smorzare tensioni e sonorità, abbandonandosi nella schietta cantabilità dell’Adagio espressivo, eseguito con suono tornito, corposo, particolarmente brunito e incisivo sulla III e IV corda del suo violino Giuseppe Antonio Rocca del 1840: il violinista salentino e il pianista veneziano si immergono in uno di quei meravigliosi idillii campestri di cui Beethoven è insuperabile demiurgo. Dalla serena cantabilità dell’adagio si transita, attraverso i ritmi e le sonorità ruvide dell’allegro dello Scherzo, alla gioiosità del Poco Allegretto finale, impreziosito dai tocchi ora martellanti, ora evanescenti (nella breve parentesi dell’Adagio) del pianoforte, prima di tornare al brio parossistico del “tempo I”, che rende ancor più plastica e muscolare la contrapposizione del dialogare tra violino e pianoforte. 

Al termine, Quarta e De Maria sono accolti da calorosissimi ai quali seguono due bis: lo Scherzo in do minore dalla Sonata F.A.E. di Johannes Brahms e l’Adagio dalla Sonata n. 3 in re minore, op. 108, sempre di Brahms, due brani eseguiti - per intensità e urgenza drammatica - nel solco della temperatura emotiva della sonata op. 30, n. 3 di Beethoven. Il secondo bis, l’adagio dalla Sonata n. 3 di J. Brahms, costituisce, poi, per Massimo Quarta l’occasione per sfoderare la potenza della cavata del proprio archetto e l’ampiezza del ventaglio delle dinamiche che il suo archetto ha in dote.

Per le prossime tre sonate, tra le quali la celeberrima “a Kreutzer”, l’appuntamento è per il 21 maggio al Teatro Mercadante, con il duo Baráti - Pace.


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