Noseda e Kavakos
di Stefano Ceccarelli
All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia Gianandrea Noseda dirige un ricco e apprezzato concerto: il Concerto per violino e orchestra in re maggiore op. 61 di Ludwig van Beethoven, con Leonidas Kavakos solista, e la Sinfonia n. 3 in re maggiore op. 29 “Polacca” di Pëtr Il’ič Čajkovskij.
ROMA, 13 febbraio 2020 – Lieto è il ritorno di Gianandrea Noseda sul podio dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, dirigendo un programma impegnativo ma assolutamente gratificante; spettacolare, peraltro, in ambedue i tempi.
Nel primo, Noseda affianca il virtuoso Leonidas Kavakos, oramai ben noto al pubblico romano per le sue frequenti apparizioni sia negli ensemble cameristici che con l’orchestra. Qui si profonde nel monumentale Concerto per violino di Beethoven, che vede l’interprete continuamente chiamato a uno sforzo di resa naturale di un numero notevole di passaggi arditi e irte difficoltà. Il mastodontico Allegro non troppo testimonia sùbito l’ottima intesa fra i due musicisti: Noseda imprime un’eccellente agogica, netta e pulita, rispettosa dei volumi e delle dinamiche, su cui si poggia naturalmente Kavakos. Il greco ha un’eccellente percezione del suono, intonatissimo, pulito, uniforme, soprattutto nei molti passaggi del registro, che abbondano in questo primo movimento. Tutti i temi e i passaggi sono porti con naturalezza e grazia, non mancando certo la dovuta energia a quelli più incisivi. L’elaborata cadenza (in parte integrata con materiale che Beethoven aggiunse in una trascrizione per violino e pianoforte successiva del concerto) è il momento in cui Kavakos lascia tutta la sala, realmente, a bocca aperta, per velocità e virtuosismo. Il Larghetto è tutto giocato sulle dolcezze belcantistiche, direi, e sfrutta mirabilmente la corda di violino sull’orchestra. Noseda tiene la massa orchestrale a un volume soffuso, delicatissimo; il violino può così, dopo essere entrato quasi per caso (un po’ come nel I movimento), librarsi aereo e melodiosissimo sui colori orchestrali. Kavakos dà più peso alla tornitura del suono, alle sfumature millimetriche, persino ai respiri dell’archetto, nonché ai trilli. Splendido risulta l’attacco, poi, del III movimento, con quel suo ritmo galoppante che evoca una battuta di caccia (dal che il nome di “Jagd-rondò”); Kavakos legge il tutto con piglio brillante, accompagnato da un Noseda mai poco vigile. Alla fine, il pubblico esplode in un applauso assai lungo, che porta Kavakos a regalare un bis bachiano.
Nella seconda parte, Noseda sceglie di dirigere un pezzo in genere poco eseguito (in Accademia aveva praticamente avuto battesimo con Gergiev nel recente 2018: https://www.apemusicale.it/joomla/recensioni/44-concerti2018/5634-roma-festival-cajkovskij-gergiev-14-15-16-01-2018), ma a torto: la Terza di Čajkovskij, infatti, merita ogni elogio, sia per varietà d’invenzione che per tecnica compositiva, che raggiunge notevoli vette, in particolare nel celebre finale (da cui deriva, appunto, il nome di “Polacca”). L’orchestra ha un suono vivo, brillante, netto, come si deve a una sinfonia čajkovskijana. Noseda dirige serratissimo, attento, teso, con un gesto assai analitico, eppur nobile e chiaro. I movimenti scorrono assai piacevolmente e il direttore sa cogliere il fiore di ognuno. Del I movimento, Noseda coglie il senso di slancio, quasi vitalistico, se non ieraticamente ironico, che dalla marcia funebre, in apertura dell’Allegro brillante,si sviluppa in uno slancio tutto coreutico nello sviluppo del pezzo. Nel II movimento, il direttore è assai abile a rendere quel senso di danza ‘impossibile’, quell’ondulazione orchestrale che, talvolta si gonfia, per poi ristagnare; le figurazioni, sempre di danza, del secondo tema, quasi una rapsodia naturalmente improvvisata, è un altro dei momenti in cui Noseda ci mostra di che pasta è fatto. Che tocco intimistico riesce a dare Noseda, poi, all’Andante elegiaco, dove gli archi sono così tesi a incarnare l’ideale malinconico di dolcezza chiaroscurale così tipicamente čajkovskijano. Nello Scherzo, di sapore inconfondibilmente mendelssohniano, il direttore slancia i legni e i pizzicati degli archi in un fatato passaggio aereo, il respiro di un bosco incantato. Nel finale, nell’Allegro con fuoco, come aveva fatto nel I, Noseda fa emergere il senso coreutico del tempo di polacca, slanciando la melodia che per la sua fama ha dato il nome all’intera sinfonia. Gli applausi invadono la sala.