Purcell sotto la tradizione
di Francesco Lora
Al Teatro La Fenice, Dido and Aeneas riceve da Tito Ceccherini una lettura onesta e fa ricordare l’urgenza di un energico lavoro filologico su una partitura nota più tramite la tradizione esecutiva che attraverso le sue fonti. Nella compagnia di canto spiccano Giuseppina Bridelli, Michela Antenucci e Valeria Girardello.
VENEZIA, 5 settembre 2020 – Più un’opera ha incontrato fortuna ed è circolata in teatri e biblioteche, più è facile che il suo testo – parole e soprattutto musica, fuori dal controllo dell’autore – sia stato corrotto per iscritto o frainteso nell’eseguirlo. Come si sa, le edizioni critiche sono l’atto di restauro che permette di cogliere un testo nei suoi movimenti, spesso fortuiti o dolosi, attraverso la storia. Un caso cui non si bada mai abbastanza è quello di Dido and Aeneas di Henry Purcell, con la sua forbitissima e commovente oretta di musica composta sul finire del Seicento. La breve opera è tramandata in numerose fonti e diverse versioni, tutte degne di studio e confronto; di fatto la si esegue però secondo un solo testo, ratificato in edizioni a stampa di mezzo secolo fa – molta acqua, da allora, è passata sotto i ponti della ricerca – e che induce all’errore persino nell’assegnare ai personaggi i giusti registri vocali: le parti di Dido e della Maga, per esempio, spetterebbero a un soprano puro e a un baritono, rispettivamente, e non a due voci gravi femminili, come invece oggi si usa fare. Rimane poi in ballo la corretta lettura del testo in sede esecutiva. A dispetto delle rappresentazioni costanti e di una sterminata discografia, quasi nessun interprete si è avventurato a dipanare scientificamente – cioè con cervello e documenti anziché con pancia e sensazioni – quale eclettico prodotto culturale sia Dido and Aeneas: teoria musicale di scuola inglese, maturata per secoli nelle cantorie delle chiese, ma modello formale desunto dalla coeva tragédie lyrique francese di Jean-Baptiste Lully (drammaturgia, coreografia, strumentazione) e uso dell’orchestra influenzato dallo stile italiano di Giovanni Battista Vitali (che a Londra aveva una sponda notevole: la regina Maria Beatrice, già principessa di Modena). Vige poi un abbaglio generale: il credere che questo piccolo capolavoro potesse essere stato composto per un collegio femminile anziché per un alto contesto nobiliare o accademico se non direttamente di corte. Insomma: si crede di conoscere Dido and Aeneas poiché lo si esegue spesso, mentre è proprio tale continuità a scoraggiare l’iniziativa di dovuti approfondimenti.
Una testimonianza né impropria né eccentrica, ma semplicemente ordinaria, viene dalle tre recite del 4-6 settembre alla Fenice di Venezia. Il teatro è tuttora in assetto da emergenza sanitaria: platea svuotata delle poltrone e ornata da un’installazione fissa che evoca la carena di una nave; pubblico che assiste – socialmente ben distanziato – dal palcoscenico, dai palchi e dalle gallerie; in una metà della sala prende posto l’orchestra, il coro fa da cerniera e nell’altra metà, verso il proscenio, ha luogo l’azione teatrale. Quest’ultima, ridotta all’essenziale, porta la firma di Giovanni Di Cicco per la mise en espace, di Massimo Checchetto per gli elementi scenici, di Carlos Tieppo per i sobri costumi e di Fabio Barettin per il disegno delle luci. Di Cicco firma anche il progetto coreografico, macchiato da una menda che rasenta l’assurdo: i quattro danzatori si esibiscono in un’uguale maniera sia durante le parti cantate sia durante i passi di ballo, mentre è ovvio che solo questi ultimi forniscono gli spazi deputati all’arte loro senza disturbare quella del canto. Musica: il concertatore è Tito Ceccherini, esperto più come interprete e padrino battesimale di composizioni contemporanee che come filologo alle prese con partiture secentesche storicamente ben connotate. Nell’alacre lavoro con l’orchestra e il coro veneziani, ne esce un’onesta lettura di tradizione, dove Dido and Aeneas è appunto accolta come opera di repertorio e non indagata come testo da scrostare. Peccato, allora, che qui e là s’insinui la voglia di strafare e di propinare una falsa filologia: per esempio, l’idea di affidare alcuni passi orchestrali a singoli suonatori anziché all’intera sezione degli archi, là dove basta la presenza scritta delle viole, nella civiltà musicale tardosecentesca, per sconsigliare il ricorso a queste parti reali. Compagnia di canto capitanata con temperamento dalla Dido di Giuseppina Bridelli, cui fanno prezioso corteggio la luminosa Belinda di Michela Antenucci e la sontuosa Maga di Valeria Girardello, indi la Seconda Donna di Martina Licari, le Streghe di Lara Lagni e Chiara Brunello, lo Spirito e il Marinaio di Matteo Roma, nonché l’insolitamente sanguigno Aeneas di Antonio Poli.