Aida, le pagine riattaccate
di Francesco Lora
Al Teatro alla Scala si esegue per la prima volta Aida con l’inizio dell’atto III nella sua ritrovata prima stesura, per il gusto di sapere di più sulla genesi di un massimo capolavoro di Giuseppe Verdi. Interpretazione di valore, dalla direzione di Riccardo Chailly fino all’impareggiabile coro e a una compagnia di canto dagli orizzonti pur eterogenei.
MILANO, 15 ottobre 2020 – Nell’Aida ora al Teatro alla Scala (6-19 ottobre) c’è una calamita preziosa, testuale prima ancora che interpretativa, puntata per far drizzare gli orecchi al melomane non meno che al musicologo: la prima esecuzione assoluta dell’inizio dell’atto III, come Giuseppe Verdi lo aveva in un primo tempo composto per Il Cairo. Poiché il debutto era stata ritardato dallo scoppio della guerra franco-prussiana, il compositore ebbe tempo e modo per limare la partitura già bella che terminata. Della prima rappresentazione in Egitto, dicembre 1871, gli interessava il giusto; gli premeva assai più della “prima” europea, alla Scala, poco più di un mese dopo. A Milano, la protagonista doveva essere Teresa Stolz; per lei Verdi inserì la romanza «O cieli azzurri, o dolci aure native», a costo di venir meno a un proprio precetto: azione chiara e svelta, nessuna sospensione. Onde preparare l’ascolto della romanza, però, anche ciò che precedeva fu riconcepito: il coro di sacerdotesse e sacerdoti non era quello intriso di esotico colore locale, oggi a tutti noto, bensì uno in tersissimo, sospeso, ecclesiastico stile palestriniano; il dialogo di Ramfis e Amneris, sulle stesse parole come il suddetto coro, fu anch’esso rifatto, e così pure l’ingresso di Aida, che in origine era cantato su nove versi di recitativo anziché su cinque (con beneficio di un sesto, nuovo, utile a fare da ponte con la romanza: «Oh patria mia, mai più ti rivedrò»). Fino all’ingresso di Amonasro e fino all’estate 1871, l’atto III era insomma musica diversa: 108 battute e circa nove minuti d’ascolto contro 151 battute e dodici minuti. La storia qui ripercorsa, tra esperti, si sapeva già; le pagine staccate dal manoscritto originale, invece, dormivano sonni segreti nel famoso e inaccessibile baule della villa di Sant’Agata. Ora che quella miniera di carte verdiane, rimaste di fatto blindate per un secolo, è fruibile all’Archivio di Stato di Parma, la prima stesura dell’inizio dell’atto III di Aida può essere finalmente studiata, eseguita e ascoltata, per il gusto – legittimo, doveroso, benvenuto – di sapere di più sulla genesi di un massimo capolavoro verdiano, e per concedersi anche lo sfizio di una scoperta: la musica del perduto coro di sacerdoti e sacerdotesse è la stessa poi usata nel «Te decet hymnus» della Messa da Requiem.
L’eroe che attua il dialogo tra musicologi e musicisti, e che si preoccupa di far arrivare le conoscenze al pubblico, ha i soliti nome e cognome: Riccardo Chailly, direttore dell’esecuzione in forma di concerto alla Scala (e anzi di un più ampio approfondimento intorno ad Aida: il prossimo 21 ottobre dirigerà, in un’accademia con Anna Netrebko, anche la sinfonia composta, in sostituzione dell’originale preludio, per Milano 1872; un brano rutilante e raro, finito a sua volta accantonato prima della “prima”). Ispirazione intima, toni sommessi, ritmo mai incalzante: così procede la lettura di Chailly, e non si distingue tanto per novità d’idea – molti hanno già battuto questa strada – quanto per determinata coerenza di visione e meticolosa preparazione dei cantanti. Il coro (le sezioni maschili in particolare) contribuisce con materiale impareggiabile per vivido, morbido e incisivo profluvio di colori e accenti, in barba a un distanziamento sociale che lo fa schierare a qualche miglio dalla prima fila di platea. L’orchestra scaligera mostra invece una maggiore sofferenza innanzi alla normativa sanitaria: tirati fuori dal golfo mistico, mascherati, distanziati e con leggii non condivisi, i professori perdono terreno in fatto di coesione e palesano il loro scoraggiamento soprattutto se il cavallo è quello di battaglia. Per tacere del fatto che quasi ogni opera verdiana patisce di per sé nell’esecuzione in forma di concerto: si perdono i giusti spazi del coro liberamente assortito tra le sue sezioni, dell’orchestra a far da tramite tra palcoscenico e sala a ferro di cavallo, della banda in quinta e degli strumenti in scena, nonché dei cantanti che, in primissimo piano, non possono rivolgere uno sguardo diretto al podio e condividere così un’intenzione con il direttore.
Ce ne sarebbe qui un gran bisogno, invece, visto che Chailly è unico riferimento di una compagnia di canto notevole ma dagli orizzonti eterogenei. Servirebbe innanzitutto coinvolgere Saioa Hernández nel disegno complessivo, o adeguare quest’ultimo a un soprano protagonista ai limiti del fuori luogo; pianissimi luminosi e a fuoco ed esuberanza del registro di petto danno conto della bontà tecnica; le note risultano però posizionate una per una, verticalmente, vanificando la direzione della frase musicale, che necessiterebbe del legato d’ordinanza attraverso melodie e registri, nonché il senso di quella teatrale, chiusa in un riserbo tale da far svanire un personaggio già qui menomato della romanza. Francesco Meli, come Radamès, insegue al contrario fraseggi ancora più sfumati, fragranti ed estremi di quanto non avesse già fatto con Riccardo Muti: benissimo, anche se tale virtuosistica messa a punto di pianissimi, smorzati e mezzevoci espone a dura prova la tenuta tecnica, e può scoprire, insieme con intenzioni encomiabili, anche l’annacquamento nel falsetto, le perdite di smalto lucente e le uscite dalla giusta intonazione. Non si discute, invece, al cospetto dell’Amneris di Anita Rachvelishvili: torrenziale nel volume, contralteggiante a oltranza, disumana per generosità e resistenza, versata tutta nell’immedesimazione che trascina e mai nel calligrafismo che compiace; reca ancora una volta lo stupore che si dovette provare all’estrazione del diamante Cullinan, grezzo dei suoi oltre 3100 carati, miracolo inestimabile di natura, prima ancora che lo si tagliasse in oltre cento gemme superbe. Un altro fenomeno della natura è Amartuvshin Enkhbat come Amonasro: dispensa una facilità di canto baritonale che disarma la penna del critico, e che impressionerà tanto più quando unita a una personale cifra espressiva. Tra i bassi, Jongmin Park, come Ramfis, ostenta i mezzi più rotondi e copiosi, ma Roberto Tagliavini, come Re, gli dà filo da torcere in virtù di un porgere più autorevole, di una retorica più idiomatica, di mezzi più duttili e genuini. Enfatico, vigoroso, ottimo caratterista e non banale comprimario il Messaggero di Francesco Pittari. Puntuale Chiara Isotton nelle volute melodiche della Sacerdotessa (che prima di passare da Il Cairo a Milano aveva anche un nome: Termuthis).
foto Brescia Amisano