Povero Rigoletto
di Luca Fialdini
Il secondo appuntamento con il cartellone lirico del Verdi di Pisa prosegue con la trilogia verdiana. Molti gli applausi, altrettante le perplessità
PISA, 19 settembre 2021 – A distanza di una settimana dall’apertura di stagione, il Teatro Verdi prosegue con le produzioni da sette giorni della trilogia verdiana: è il turno di Rigoletto. Con questa seconda tappa ci si rende conto della cifra di queste produzioni, ossia il risparmio a ogni costo. I costumi sono sempre della Sartoria Teatrale Fiorentina e del Teatro di Pisa, la scena è sempre vuota in modo sconfortante e l’unica nota di scenografia è dovuta alle consuete videoproiezioni, ancora una volta a firma di Angelo Sgalambro. Parlando di queste, la situazione è migliore rispetto alla Traviata, c’è meno confusione sul palco e un po’ più di gusto, ma l’inciampo è sempre il solito: non aggiungono nulla e soprattutto non significano nulla in rapporto con la drammaturgia. Inutili anche i riferimenti alla città di Pisa, dato che l’allestimento è assolutamente a-contestuale. A mancare è stato il coraggio di decontestualizzare totalmente l’opera, proseguendo una strada di fatto già imboccata con il videomapping e le combinazioni di luci e fumo (per l’amor di Dio: mai più i laser) e che avrebbe potuto portare a risultati interessanti. Nota positiva: non si è ripetuta l’introduzione in stile Barcaccia dell’opera ad ogni cambio d’atto.
La regia è firmata anche stavolta da Enrico Stinchelli e risente dello stesso problema di quella della Traviata ma anche della Tosca del mese scorso, perché manca una vera direzione. Va benissimo optare per un approccio di tipo tradizionale, ma questa scelta non deve essere di ostacolo al proporre una propria lettura del testo verdiano, altrimenti la regia appare vuota precisamente come la scena. Felice la decisione di far seguire senza fermate il Duetto tra Rigoletto e Sparafucile alla scena della festa. Oltre a creare un contrasto davvero potente, in questo modo si segue una caratteristica della partitura: la festa termina in re bemolle maggiore, il duetto inizia con il primo clarinetto che intona un re bemolle - seguito poi dagli archi gravi - mantenendo una sorta di eco della festa.
Decisamente più in forma l’Orchestra (forse per il taglio più senior degli orchestrali) e il Coro Arché: buona compattezza generale e solido il sostegno. In orchestra vincente la reintegrazione degli ottoni al completo, per evitare un ritorno alle nozze coi fichi secchi di Traviata. Molto migliore la direzione di Marco Guidarini, assai più centrata e capace di garantire una maggior omogeneità tra buca e palco. Non sono mancati anche in questo caso scollamenti ritmici, ma meno estesi e da imputare anche a un cast inesperto con disponibilità di pochissime prove. Molto buono il corpo di ballo con le coreografie di Daniela Maccari, anche utilizzato in modo meno invasivo. Da segnalare l’ottima Alice Bachi che, dopo aver vestito i panni della Morte, qui è una ieratica Maledizione. Al netto della bravura interpretativa, l’idea della Maledizione portata in scena in carne e ossa è poco efficace e nulla aggiunge alla drammaturgia.
Il cast complessivamente è buono ma non brilla e il risultato è misto: da Ilaria Casai ci si aspettava un Paggio più incisivo, mentre Eleonora De Prez è una sicurezza in qualsiasi ruolo e risulta ottima anche come Contessa di Ceprano; Emil Abdullaiev non convince appieno come Monterone, ben centrati Gianluca Andreacchi, Carlo Enrico Confalonieri e Alessandro Martinello che vestono i panni rispettivamente di Marullo, Borsa e Ceprano. Galina Ovchinnikova (Giovanna) e Levan Makaridze (Sparafucile) dimostrano buone vocalità e facilità di fraseggio, ma l’interpretazione resta piuttosto fredda; da due cantanti del genere per il futuro ci si aspettano prove più interessanti.
Splendidamente caratterizzata la Maddalena di Clarissa Leonardi e di ottima riuscita scenica, pulita nell’intonazione e precisa negli interventi soprattutto nei micidiali quartetto e terzetto. Unica cosa fuori posto, che condivide con il fratello Sparafucile, l’incomprensibile salto del fatale «entrate».
Nel trio dei personaggi principali il più debole è sicuramente il Duca di Mantova. Zi-Zhao Guo parte nel primo atto con una voce che sembra fuori scena (persino Borsa lo sovrasta) per poi migliorare progressivamente. Ciò che non migliora è la dizione spigolosa e oscura e il fraseggio a tratti approssimativo, rendendo la sua interpretazione assai poco efficace; il tenore è certamente conscio dei propri limiti e punta tutto sugli acuti e sull’ignoranza del pubblico: a conclusione di una cabaletta a tratti pessima si spara una puntatura a pieni polmoni e la sala esplode di giubilo.
Francesca Benitez è una Gilda valida, dal timbro cristallino e con un controllo vocale preciso su quasi tutta l’estensione del registro. Nell’acuto ha qualche rigidità, ma nel complesso riesce a mantenere una morbidezza notevole. La caratterizzazione del personaggio è buona ma non completamente realizzata: ciò che forse non arriva fino in fondo è la dimensione tragica della figlia di Rigoletto, un tratto che conferisce maggior profondità al carattere. Da sottolineare però l’interpretazione davvero sentita dello straziante finale, in cui ha saputo infondere un tratto personale.
Onore e lode ad Alberto Gazale che canta la parte di Rigoletto esattamente come è scritta: niente puntatura assurda su «è follia» e niente portamento a «un vindice avrai». Tutti gli altri sul palco mantengono gli stilemi del classico Rigolettaccio di tradizione (direttore incluso, che taglia la ripetizione di Possente amor), ma almeno chi ha il ruolo del titolo si attiene a quanto scritto da Verdi. In una parola: grazie! Rimarchevole l’intensità dell’interpretazione, il Rigoletto di Gazale è un autentico vulcano di emotività; forse anche troppo visto che in alcuni momenti questo tratto lo porta a un non completo controllo dello strumento vocale: sbavature abbastanza veniali, d’accordo, ma l’eccesso è l’atrio della caricatura; un’interpretazione più misurata sarebbe altrettanto efficace.
In conclusione lo spettacolo non è da cestinare, ma il livello complessivo è quasi deprimente, proprio come La traviata. Date le esperienze delle ultime tre stagioni, dal Teatro di Pisa ci si aspetta di più e soprattutto il Teatro di Pisa merita di più. Ci si augura che queste prime produzioni siano solo un incidente increscioso e che si torni il prima possibile a un livello accettabile di produzione. Il gioco al ribasso non è mai una carta vincente.