Ah! parlez, divine Iphigénie
di Antonino Trotta
Anna Caterina Antonacci trionfa nella nuova produzione di Iphigénie en Tauride che debutta al Teatro Fraschini di Pavia: Emma Dante firma uno spettacolo convincente e alla Emma Dante, Diego Fasolis una concertazione di prestigio, per un risultato complessivo di indubbio valore.
Pavia, 31 ottobre 2021 – Si vada subito al sodo. Disporre della regine delle tragédienne in un’opera come Iphigénie en Tauride, l’attesissimo spettacolo del circuito Operalombardia finalmente giunto alla luce dopo la procrastinazione imposta della pandemia, è un punto di partenza già prossimo al traguardo: il magnetismo, l’allure, la presenza scenica da bava alla bocca, l’infinità delle risorse attoriali tale da elevare ogni impercettibile gesto a momento di teatralità massima – movenze e passo coturnati rendono erotica persino l’ardua scalata del crepidoma nel primo atto – e di rendere insopportabili le mende recitative di chi la circonda, l’impareggiabile capacità di sbalzare il testo, teso tra melodia e declamazione, oltre la musica – altro che canto sulla parola, qui si tratta di parola scolpita sul canto –, fanno di Anna Caterina Antonacci la quinta essenza della tragedia stessa, interprete ideale, di riferimento, spesso assoluta di eroine mitologiche come Alceste, Cassandre, Ermione, Iphigénie appunto. Al Teatro Fraschini di Pavia, dove il nuovo allestimento del circuito Operalombardia debutta, Antonacci ripropone tutti i fasti del il suo magistero artistico: nel dominio totale della prosodia francese ella porge, accarezza, illumina, trafigge parole e sillabe con accenti, colori attinti a una gamma espressiva sterminata sicché, specialmente nei recitativi dove la zampata ferina s’imprime a suon di unghiate, si finisce col pendere letteralmente dalle sue labbra. Se dal un lato il canto nudo e crudo si ammanta di sfumature e vibra di quel timbro regale e altero, dall’altro la maestria suprema nella definizione di un personaggio in cui sanno convivere sofferenza e riscatto, condanna e perdono, vita e morte, è tale da restituire una Ifigenia sì divina e vera da insediarsi fin da subito nella memoria come un’emozione viva più che come un’immagine definita.
Nei pochi metri che separano la partenza dall’arrivo, tutto poi sembra funzionare benissimo. Bruno Taddia viene a capo di una parte mostruosa per carattere e tessitura con tanto onore: il timbro si conserva omogeneo anche nei frequenti salti all’acuto, infiamma il fraseggio in arie e recitativi così da non trascurare alcuna sfaccettatura di Oreste, amoroso e eroico, virile e tenero, conferendogli così una drammaticità mai priva di credito. Non è da meno Mert Süngü nei panni di Pylade, tenore dal timbro chiaro ma linea di canto prestante e incisiva. Tuona Michele Patti che nell’irruenza di un’emissione spesso spavalda ben incontra il temperamento del belligerante Thoas. Marta Leung è un’ottima Diana. Completano correttamente il cast Miriam Gorgoglione (prima sacerdotessa), Chiara Ciurlia (seconda sacertotessa), Alessandro Nuccio (uno scita) e Ermes Nizzardo (ministro del tempio).
L’allestimento firmato da Emma Dante mostra fin da subito un grande pregio, quello di lasciare libera cotanta primadonna e di costruire intorno a lei una regia che non manca di esaltare lo spirito della tragedia – e lo fa soprattutto quando rafforza il testo e lo rende evidente anche agli occhi, ad esempio durante la suggestiva risoluzione del duetto tra Oreste e Pylade –. Certo, i topoi del teatro di Emma Dante ci son tutti e con la consueta abbondanza – le sinistre e demoniache figure femminili che si contorcono sulla scena; le coreografie di Sandro Campagna in bilico tra il primitivo e il sarcastico; la ritualità cattolica ora invocata sfacciatamente nella riuscitissima scena della celebrazione funebre, ora accennata nella “deposizione” di quella che sembra essere la proiezione di Ifigenia dal cervo-altare nel finale; il registro provocatorio che ad esempio porta a ritrarre le Erinni come suore dalle lunghe braccia e a definire un moderno concetto di mantide religiosa; la passione per i tableau vivant, come il bellissimo fregio vivente del primo atto che racconta la premonizione della protagonista – e là dove il linguaggio narrativo vorrebbe osare con allusioni o simbologie difficilmente si osserva la retorica trasformarsi in drammaturgia – sì, il cervo scarnificato su cui monta la proiezione di Ifigenia è un affascinante modo per rappresentare l’altare su cui si barattano vita e morte; l’altalena fiorita, metafora dell’altalenare della vita, è molto scenografica ma anche un po’ banale; il tema della maternità, caro ad Emma Dante e quindi frequente nel suo teatro, c’è ma non contribuisce all’economia del dramma – e difficilmente si ripaga lo sforzo impiegato per decifrarle, però sul palcoscenico tutto è montato con abilità e competenza tali che lo spettacolo complessivo, senza dubbio impreziosito dalle bellissime scenografie di Vanessa Sannino illuminate come si deve da Cristian Zucaro, finisce col persuadere anche chi non ne condivide appieno la linea.
Alla guida dell’orchestra I Pomeriggi Musicali, Diego Fasolis è garante tanto di comodità e attenzione al palcoscenico quanto di erudizione e stile in buca. Così pur con un’orchestra che suona strumenti originali si può ascoltare una concertazione priva di turgori protoromantici, sensibile ai preziosismi del classicismo francese, che scatta nitida e rigogliosa senza mai perdere di vista le impennate o i ripiegamenti del dramma. Eccellente, infine, la prova del Coro OperaLombardia istruito dal maestro Massimo Fiocchi Malaspina.
Applausi lunghi e strameritati per uno spettacolo che vale non perdersi.