Ai piedi degli Etiopi
di Antonino Trotta
Le superbe voci di Angela Meade e Amartuvshin Enkhbat trionfano nell’Aida in forma di concerto, unico titolo d’opera nella stagione Metropolitana del Teatro Regio di Torino: al loro fianco, Pinchas Steinberg dirige ottimamente i complessi di Coro e Orchestra che guadagnano i più calorosi consensi a scena aperta.
Torino, 26 novembre 2021 – Quant’è vero che l’opera va vista dal vivo e non in tv. Dopo la recita estiva dell’Arena di Verona trasmessa da Rai5, positivamente recensita dai fortunati colleghi lì presenti, all’Aida del super soprano Angela Meade ci si avvicinava con qualche riserva e un’idea, alla prova dei fatti, decisamente miope.
Sì, in quella voce a palate, la parola è spesso solo regolatore di alzo per finalizzare il tiro del cannone – nei finali non ce n’è per colleghi, coro e orchestra –, il fraseggio non sempre all’altezza dei portentosi mezzi che ella ha a disposizione, e momenti come «Cieli azzurri» si concludono in una comunque elettrizzante ostentazione di una vocalità prodigiosa. Una vocalità prodigiosa che dall’acuto al grave sale e scende per il pentagramma, fluidissima e rigogliosa, senza buchi né increscapure, con una tecnica superba che le permette di fare praticamente tutto ciò che desidera, e se il do filato manca, dato che sa smorzare fino all’impalpabilità pure il re sopracuto, sicuramente è perché non vuole. Poi però arrivano Amonasro prima e Radamès dopo, la tensione cresce, la narrazione avvampa e Angela Meade trova in quell’arco drammatico del terzo atto il suo terreno espressivo d’elezione – che poi è il canto di temperamento –, capace com’è di dare risonanze e vibrazioni inaudite al dramma, di imporre accenti incendiari, di alternare il pianissimo più etereo – «Vedi?...Di morte l’angelo», nel finale, è il trionfo del Belcanto senza limiti – a note che sono autentiche folgori, sempre nel controllo più assoluto di una linea di canto legata, morbida, timbrata, screziata da un ventaglio di dinamiche disarmante per ampiezza e opulenza. Straordinaria.
Meade non è l’unico fenomeno vocale, Amartuvshin Enkhbat siede con lei sul trono di questa Aida. Anch’egli privilegiato per il possesso di uno strumento unico per smalto, timbro, volume – alla faccia dei colleghi più blasonati –, Enkhbat porta in concerto un Amonastro signorile nel porgere il testo, mai dimentico della sua natura regale anche quando tuona severo e protervo, aristocratico nel fraseggio misurato, intelligente, quindi depurato dagli eccessi di maniera che pur ammorbano un po’ questo ruolo.
Discorso più complesso per gli altri protagonisti. Anna Maria Chiuri non può vantare certo doti quali facilità e omogeneità, i si bemolle del duetto con Radamès vanno su in maniera laboriosa, Steinberg le allarga pure scomodamente i tempi nella scena del giudizio; però è anche vero che su quel palco è l’interprete più sopraffina, colei che nella principessa egiziana trova una miniera di accenti e colori, colei che non si limita a scolpire la parola scenica, ma la vive sulla propria pelle, animando così un’Amneris magnetica, ferina e ferita, vittima e carnefice, che non lascia affatto indifferenti. Goal, questo, che Stefano La Colla non segna. Al di là della genialata di cattivo gusto di far ascoltare prima che l’opera inizi «Celeste Aida» cantata da Caruso – per il gesto in sé, non perché ponga un insormontabile termine di paragone: senza nulla togliere alla grandezza del tenore napoletano, il gusto evolve e oggi Verdi cantato in quella maniera è più che superato –, La Colla affronta il ruolo con una nobiltà d’intenzione – quella di sfumare, ad esempio – a cui purtroppo non corrisponde una nobiltà d’esiti. Gli acuti son belli voluminosi, il fraseggio pugnace e fiero ma a La Colla, apprezzato in altro repertorio, con Radamès è chiamato al cimento di una parte più imparentata al Belcanto che agli ardori del tenore drammatico di inizio Novecento: senza confidenza col primo stile, i risultati finiscono con l’essere inevitabilmente compromessi. Dmitry Belosselskiy è un Ramfis sonoro anche se a tratti cavernoso; Antonio Di Matteo, al di là di un trascurabile incidente, è un Re dalla voce autorevole; corretti Ashley Milanese (sacerdotessa) e Francesco Pittari (un messaggero). Ottima la prova del Coro, istruito dal maestro Andrea Secchi, che meritatamente guadagna i più calorosi consensi “a scena aperta”, virgolettato perché non c’è né una scena né un sipario da aprire – siamo all’auditorium Agnelli del Lingotto –.
Alla guida dell’orchestra del Teatro Regio, in gradissimo spolvero, Pinchas Steinberg è protagonista di una concertazione eccellente. Si tratta di un’Aida decisamente lirica, raffinatissima nella qualità del prodotto sonoro, colossal quando richiesto ma mai volgarmente colossale: Steinberg pone sempre in primo piano le oasi melodiche, i preziosismi strumentali, la fattura sopraffina dell’orchestrazione stessa senza però mai frenare l’incedere del dramma, guidando l’orchestra con una bacchetta sempre pronta all’impennata drammatica, agogica e dinamica, che sottende un arco narrativo efficace e compiuto.
Seconda e ultima recita domani. Da non perdere.