L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L’ultima “Grande”

di Francesco Lora

Al Ravenna Festival, Riccardo Muti dirige l’Orchestra giovanile “Luigi Cherubini” nella Sinfonia n. 9 di Franz Schubert: la lettura non tanto partecipa all’evoluzione di un percorso interpretativo, teso tra Vienna e Milano in particolare, quanto piuttosto segna in esso un atto di svolta dal sapore testamentario.

RAVENNA, 2 settembre 2021 – Un concerto di Riccardo Muti con l’Orchestra giovanile “Luigi Cherubini” è stato eseguito il 10, 12 e 14 luglio scorsi, rispettivamente nella Reggia di Caserta, al Teatro La Fenice di Venezia e nel Teatro Antico di Taormina: programma aperto dalla seconda Ouverture detta “In stile italiano” di Franz Schubert (D. 591), nelle prime due occasioni, o dalla Sinfonia di Norma di Vincenzo Bellini, nella terza; programma mastodonticamente completato da un opus maximum ancora di Schubert, la Sinfonia n. 9 detta “La Grande” (D. 944). Nella declinazione tutta schubertiana, e tutta in Do maggiore, il concerto doveva figurare anche al Ravenna Festival, il 16 luglio, nella Rocca Brancaleone, ma si è poi reso necessario un rinvio. Rinvio al 2 settembre, in un contesto ravennate insolito per i frequentatori della rassegna estiva: ormai più vicini all’equinozio che al solstizio, si è arrivati già col buio e le spalle coperte; il luogo non è stato più quello esterno della rocca, consigliato dai tempi di pandemia, bensì l’abituale casa dei concerti sinfonici, il Palazzo De André, che ha però accolto il pubblico diversamente da prima: lunghe e ordinate file per il controllo del green pass, posti ben distanziati l’uno dall’altro dove prima si stava in migliaia, tribuna centrale smontata visto il ridotto uditorio ammesso.

L’Ouverture consuma in breve ciò che di brillante – la composizione esemplifica stilemi rossiniani assorbiti dal linguaggio viennese – Muti intende concedere nello spirito della serata. La “Grande” è sua partitura del cuore, da lui letta e riletta innumerevoli volte, una più memorabile dell’altra, soprattutto con i Wiener Philharmoniker e la Filarmonica della Scala: scambievolmente, Muti ha recato ai primi la colorita e flessibile cantabilità all’italiana, alla seconda il gioco danubiano di rubati e piani dinamici. Quest’ultima lettura, con la Cherubini, non tanto partecipa all’evoluzione di un percorso interpretativo quanto piuttosto segna in esso un atto di svolta. Si dà qui conto di una “Grande” plumbea per non dire caliginosa, poderosa per non dire colossale, introversa per non dire pessimista, malinconica per non dire funebre; mai prodiga di luminosi riflessi metallici, sempre avida di assorbimenti marmorei; legatissima, con quegli archi sempre in primo piano; lentissima, con quei tempi che paiono anelare all’immobile: il primo movimento sconfina a diciannove minuti contro i quattordici di media, il secondo sembra al confronto scattare e dura comunque due minuti più del solito, il terzo e il quarto ingannano il cronometro con lo stralcio di ritornelli ma indugiano del pari. Non una narrazione magnifica, ma una tragica contemplazione.

Non v’è alcuna intenzione filologica in un discorso così condotto, ultima e nobile propaggine, démodé, di un lavoro sul suono d’altri tempi. V’è invece il ritratto, estremo, estremistico, acceso ma freddo, che un artista sommo e anziano lascia, come un testamento, al mondo musicale di ieri e di oggi: questa “Grande” scuote intorno a sé una polverosità che sa di eterno. Si avverte l’inevitabile difficoltà di un dialogo poetico e tecnico intergenerazionale. Le infinite campate sonore richieste da Muti, senza che la frase musicale crolli su sé stessa, appartengono all’abilità di orchestre storiche, dove i canuti passano quanti sanno agli imberbi, non dal podio alla fila ma tra leggio e leggio. I giovani della Cherubini appartengono invece a un mondo dove il dialogo col passato si è quasi interrotto e dove Muti resta ormai isolato e caparbio alfiere del dissolto; un mondo dove il passo musicale si è fatto più rapido e dove al lavoro estetico sul suono si è di fatto sostituito quello retorico sul porgere. Quanto fossero e siano diversi Riccardo e Claudio lo si apprezza, per entrambi, soprattutto, nel loro invecchiare. Basta poi poco ad aprire squarci su come il Muti di oggi sia non solo quello dell’ultima “Grande”: la Sinfonia di Norma, recuperata come bis in memoria del compianto Micha van Hoecke, sfolgora ancora come da lui ascoltata venti, trent’anni fa.


 

 

 
 
 

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