Luce e polvere
Il Teatro Verdi di Pisa inaugura la stagione lirica con una nuova produzione di Andrea Chénier che solleva qualche perplessità
PISA, 25 ottobre 2024 – È ancora vivo il ricordo del Barbiere di Siviglia di un anno fa mentre al Teatro Verdi di Pisa si alza il sipario sulla nuova stagione lirica con una nuova coproduzione fra Pisa (capofila), il Sociale di Como – As.Li.Co., il Grande di Brescia, il Fraschini di Pavia, il Ponchielli di Cremona, il Sociale di Rovigo e il Giglio di Lucca, riunitisi «tutti qui, sorridenti a Mimì» per l’Andrea Chénier di Umberto Giordano.
L’opera è difficile per almeno due aspetti fondamentali: la partitura non concede mai un attimo di tregua, specialmente per l’orchestra in continuo fermento, e soprattutto è polverosa; la drammaturgia funziona, tuttavia l’impianto narrativo è così vecchio e i versi di Illica così stantii – anche per il 1896 – che l’ideazione scenica deve trovare il modo di togliere la polvere in eccesso. Beninteso, questo non significa sostituire alcunché o reinventarsi daccapo l’opera, semplicemente bisogna riuscire a focalizzare il proprio lavoro sul cuore stesso del dramma. Andrea Cigni, potendo contare sugli sforzi congiunti di Dario Gessati alle scene, Chicca Ruocco ai costumi, Fiammetta Baldisseri e Oscar Frosio alle luci e Isa Traversi alla cura delle coreografie, confeziona uno spettacolo visivamente gradevole e all’altezza del budget investito; si apprezza il clima arcadico del primo atto con l’evidente citazione dei Fortunati casi dell'altalena Jean-Honoré Fragonard, il sapiente utilizzo delle luci e quell’alone indistinto di reale-non reale (gustoso che la gavotta cortigiana chiuda con un “crollo” di fondale che rivela le macerie rivoluzionarie), ma di fronte a un titolo che ha un enorme necessità di aiuto da parte della regia Cigni sembra più preoccupato di affermare a ogni scena «questa-non-è-una-regia-moderna» piuttosto che fornire una vera lettura dell’opera. Ça va sans dire, non siamo davanti alle sfilate di costumi di Pier Luigi Pizzi o dell’Ernani di cinque anni fa, ma questo è proprio il classico Chénier che emana odore di antitarme e visto il livello di Pisa degli ultimi anni ci si aspettava a buon diritto qualcosa di meglio di una bella scenografia. Il colpo d’occhio c’è, non scontenta davvero, ma non brilla. Un po’ di coraggio, perbacco!
Se sulla parte visiva c’è stato un giusto investimento, sembra che su quella musicale si sia lesinato. Il Coro Arché preparato da Marco Bargagna, per quanto del consueto buon livello, è numericamente troppo esiguo; tralasciando la scena del tribunale nel terz’atto che richiedeva molta più massa, l’ingresso del “coro” maschile nel primo atto è involontariamente comico: «sua grandezza la miseria» sono solo sei – contate, sei! – persone. Come potrebbero mai sortire l’effetto scenico previsto o anche solo rendere correttamente il crescendo impressionante di «affamati»?
La Filarmonia Veneta fatica dietro alla complessità della partitura (e senz’altro in questo ha un peso il viaggio per raggiungere Pisa il giorno stesso della prima), non è sicura di quel che sta facendo e quindi suona sempre forte, senza colori e con degli ingressi non esattamente cristallini. L’ottimo Francesco Pasqualetti riesce comunque a mantenere una buona comunicazione fra buca e palco e se l’orchestra non è in grado di lavorare di fino allora nel suo gesto chiaro e ricco di informazioni picchia duro sulla verve sanguigna del piglio verista di Giordano. Alla fine l’opera si porta a casa, però con questo imponente spiegamento di mezzi era davvero facile avere qualcosa di meglio a livello di produzione.
Il cast nel complesso è buono. Ben centrati i comprimari a cui è richiesto il doppio ruolo: Giorgio Marcello (Il Maestro di Casa/Dumas), Gianluca Lentini (Schmidt/Fouquier) e Marco Miglietta (Un’incredibile/L’abate poeta), fra questi meritano un’attenzione speciale per lo meno Fernando Cisneros (Mathieu/Fléville) e Alessandra Palomba, presente prima nei panni della Contessa di Coigny e poi in quelli di Madelon, in cui firma un’interpretazione particolarmente sentita e dalla grande comunicatività espressiva. Molto bene anche Shay Bloch che si produce in una Bersi dal timbro morbido e di insolito spessore. Alessandro Abis è un Roucher di lusso, dalla solida vocalità e dalla riuscita caratterizzazione in poche, efficaci pennellate.
Maria Teresa Leva è una buona Maddalena di Coigny: è vero che manca un po’ di polpa nel registro grave (e data la scrittura se ne sente il bisogno), ma Leva ha preso il ruolo dal verso giusto e lo rende senza manierismi, peraltro con piani e mezzevoci davvero ben controllati. Angelo Villari è uno Chénier prettamente eroico e, come un qualsiasi Manrico, dimentica di essere in primo luogo un poeta; va bene insistere sulla puntatura squillante, ma il trentunenne André Chénier, esponente dell’ellenismo francese, non può avere un tono eroico dall’inizio alla fine, soprattutto perché il ruolo risulta piuttosto appiattito. Villari registra comunque una prova positiva e in crescendo.
Angelo Veccia è senza dubbio l’interprete migliore di questo primo cast e anche quello dalla miglior proiezione. A differenza di altri Gérard, tratteggiati come complessi e tormentati, Veccia propone un personaggio granitico: per lui Carlo Gérard è un vero monolito dalla vocalità possente e apparentemente animato da un forte senso di giustizia. Si può senz’altro discutere su quale lettura del personaggio funzioni meglio, ma a Veccia va riconosciuto di aver cercato un’altra via.
In conclusione, l’apertura della stagione pisana appare sottotono e soprattutto più preoccupata di non spiacere a nessuno che puntare decisamente sulla qualità. Non è una cattiva produzione: è solo un dantesco «sanza infamia e sanza lodo», si passa una bella serata a teatro ma niente di più.
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