Archi e fiati
di Roberta Pedrotti
Il perfetto affiatamento fra Alessandro Bonato, Gennaro Cardaropoli e l'orchestra dei Pomeriggi musicali di Milano garantisce il successo di un concerto che, in due parti complementari fra loro, esplora colori e intarsi della scrittura mozartiana per archi e per fiati.
MILANO, 30 aprile 2022 - Tutto Mozart, sì, ma per nulla scontato nell'accostamento inconsueto. Eppure, il Concerto n. 5 K 219 per violino e orchestra si accoppia speculare e complementare alla Serenata n.10 K 361 “Gran Partita”. Archi dominanti (ma con oboi e corni) da una parte, ensemble di fiati (ma con un contrabbasso) dall'altra; un rondò conclusivo e un'esuberante eco turchesca per entrambi, non senza movimenti lenti di diffusa cantabilità e suggestivi impasti timbrici. Quello proposto dalla bacchetta di Alessandro Bonato e dall'archetto di Gennaro Cardaropoli con l'orchestra dei Pomeriggi musicali di Milano è un programma accattivante e insieme ricercato, così come lo è l'interpretazione.
Che Cardaropoli abbia tutte le qualità virtuosistiche al posto giusto non è in discussione, ma, se servisse, lo conferma il bis: le funamboliche variazioni di Paganini su “Nel cor più non mi sento”, suo morceau favori per i fuori programma. Anche qui, però, agilità e rapidità di dita ed archetto contano poco se non c'è un pensiero musicale; figuriamoci in un concerto come il quinto di Mozart, dove, sì, c'è da guizzare nel Rondò finale, ma le insidie vere sono ben altre.
Per esempio, si tratta di calibrare il suono, il vibrato, il colore di quello stesso Guarneri impiegato nel repertorio romantico e tardo romantico. La chiave è la musicalità, e dalla musicalità lo stile, che non snatura timbro e armonici, ma conferisce loro una soffice e sorridente eleganza, un'esatta pulizia che calza a pennello all'articolazione mozartiana, illuminando senza inaridire o raffreddare. Lo si percepisce bene nel garbo insinuante con cui riecheggia alla lontana il “Te lo credo, gioia bella, | ma la prova io far non vo'” di Così fan tutte, con cui dipana il Rondò alla turca o chiude il discorso nell'eloquentissima ambiguità del finale aperto. Lo si percepisce perché è palese l'intesa con il direttore: intesa vera, di intuizioni, scambi fulminei di idee, respiri comuni. Impossibile non notarlo anche al primo impatto, ma ancor più se si conosce il contesto di due carriere giovani quanto brillanti. Il senso del mestiere del critico, dopotutto, consiste anche nel non assorbire passivamente le proposte dei grandi circuiti, ma nel tracciare un proprio sentiero fiutando e seguendo i talenti. Così, chi ricorda un annetto fa il quinto Concerto di Mozart diretto da Bonato a Rovereto con altra orchestra e altra solista ricorderà anche come la medesima concezione – storicamente informata ma non ostentatamente baroccara – di Mozart si esprimesse in sintonia con i colleghi del momento fra arcate, sforzandi, accenti, colori leggermente diversi [Rovereto, festival Settenovecento, 18/06/2021]. Così, chi ricorda il Mendelssohn di Bonato e Cardaropoli lo scorso autunno con la Form, avrà già avuto contezza dell'affiatamento perfetto e fecondo, quasi telepatico fra direttore e violinista [Macerata/Fabriano, concerto Bonato/Cardaropoli/Form, 24-26/11/2021].
Allora si percepisce anche il gusto di un far musica che non è programmatico, non impone una tesi, non fa del rigore della preparazione una rigidità poetica, ma, padrone del linguaggio e confidente nei colleghi, sa variare con gusto e scioltezza, cantare con anima sincera, far sì che nessun elemento si riproponga solo uguale a sé stesso, vivendo in rapporto dialettico un'evoluzione mai artefatta o autoreferenziale. L'agogica respira spontanea, mossa da un gioco dinamico insito in emissione e articolazione. Non ci troviamo stretti in un'etichetta di un Mozart per forza “all'antica” o “Sturmer”, galante o romanticheggiante. Ci troviamo di fronte a un Mozart che esce dagli schemi scolastici, che non associa rapido lo stile galante a un lezioso basso albertino, armonia semplice semplice per notine a passo di minuetto, bensì, fra analisi e sintesi, si mostra limpido e profondo di per sé. Tutto da gustare proprio per quella complicità sempre sottintesa e mai esibita in equilibrio fra giovanile freschezza e serissima dedizione.
Il piacere di far musica insieme permea anche la Gran Partita, con Bonato che non ricorre a gesti superflui per dover ricordare il suo ruolo: basta poco, pochissimo, in un senso di reciproco ascolto e condivisione che ricorda il principio dell'orchestra cameristica tanto amato da Claudio Abbado. Il primo motto, quasi tagliente nella perentorietà dell'oboe, tornerà quasi come richiamo massonico, mentre gli impasti si ammorbidiscono senza perdere nitore, anzi, godendo di un dettagliatissimo gioco di duetti, controcanti, dialoghi serrati che stimolano continuamente l'ascolto nei meandri di una scrittura in cui l'accompagnamento non si subordina mai al canto. È un intarsio, semmai, anche di colori e prospettive, come quando, nei tempi lenti, la prima esposizione sembra attirare l'attenzione sull'accostamento delle melodie di oboi e clarinetti, salvo poi affacciarsi sempre più nitido il disegno per nulla meccanico o secondario dei bassi, l'avvicendarsi solistico e il moto carsico di tutte le voci.
Non solo, dunque, sul finale del concerto per violino schiocca subito per Cardaropoli un sacrosanto “Bravissimo”: tutto il programma è meritatamente festeggiato dal pubblico del Teatro Dal Verme, successo vero e concreto per valori veri e concreti.