L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Folklore musicale

 di Stefano Ceccarelli

All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia Jakub Hrůša esegue un repertorio tutto cèco, portando due esempi sublimi della musica prodotta dalla sua terra natale: la Sinfonia n. 9 in mi minore op. 95 “Dal Nuovo Mondo” di Antonín Dvořák e la Messa glagolitica di Leoš Janáček.

ROMA, 10 giugno 2022 – Il concerto diretto da Jakub Hrůša presenta al pubblico opere di due connazionali con approcci del tutto differenti alle loro tradizioni folkloriche (e non solo). Dvořák e Janáček, infatti, pur provenendo da regioni molto vicine (Boemia e Moravia) e avendo pochi anni di differenza, interpretarono la progressiva sensibilizzazione mitteleuropea verso le tradizioni musicali folkloriche, che innervò di sé il movimento tardo-romantico, in maniera alquanto differente. Hrůša, che dei due compositori è in certo senso ‘conterraneo’, sa interpretare bene la loro sensibilità.

Nel primo tempo si esegue la Nona di Dvořák, “Dal Nuovo Mondo”, che incarna l’approccio più classicistico al fenomeno del folklorismo musicale. Sulla base strutturale di una sinfonia tedesca, Dvořák ricrea un colore di sonorità in parte americane, ma, in realtà, più boeme di quanto non appaia; ciò rende la Nona così affascinante e immediatamente riconoscibile. Val la pena ricordare che Dvořák era stato direttore del neonato Conservatorio di New York, dove non vigevano barriere razziali all’insegnamento della musica e frequentando gli allievi del quale, molti di origine afroamericana, aveva avuto modo di apprezzare temi, melodie e ritmi di quella tradizione. Jakub Hrůša imposta un’agogica trattenuta, nobile, atta a leggere la partitura con respiro: ricorda, per molti versi, lo stile di Celibidache. La sinfonia si apre con un mesto Adagio, cui segue un Allegro molto in cui il suono orchestrale si fa robusto e Hrůša disegna le linee saltellanti del tema principale, che dovrebbe evocare qualcosa di affine a uno spiritual. Fra i momenti più alti della serata c’è il Largo, dove la sensibilità del direttore incontra felicemente il testo della partitura; commovente l’assolo del corno inglese, un’eco che si rifrange in una valle, fra i momenti più ispirati della sinfonia. Lo Scherzo e l’Allegro finale vengono eseguiti esaltandone i colori; nello Scherzo troviamo ancora l’espediente di una musica fortemente scandita, a richiamare suggestioni vagamente folkloriche; l’Allegro è pura energia e gli orchestrali di Santa Cecilia ne cavalcano le note, facendo scaturire l’applauso del pubblico.

Il secondo tempo è occupato dalla Messa glagolitica Janáček, monumento del compositore che assomma tutte le sue ricerche etnomusicologiche sulle melodie e i canti popolari delle tradizioni della sua terra. La partitura è tutta costruita su un senso del sacro che scaturisce da un titanico stupore dell’ascoltatore; nuclei ritmici ripetuti ossessivamente, grandi blocchi orchestrali, cori a voce spianata sono gli elementi costitutivi di questa partitura sacra di Janáček. Come chiarisce il bel programma di sala a firma di Zenni, Janáček era ateo: il suo intento era l’esaltazione del panslavismo, del naturalismo panico e, persino, dell’erotismo trasfigurato in qualcosa di sacro, non nel senso strettamente cristiano, ma un afflato universalmente umano. Tale sentimento panico e naturalistico si nota palpabilmente nell’incipit del Gloria, dove la voce del soprano, su una florida e seducente linea orchestrale, intona una dolce melodia, venata da momenti di tensione. L’esecuzione è qui affidata alla talentuosa Kateřina Kněžíková, dalla voce tersa e potente. Già dal Gloria si nota bene la tecnica compositiva di Janáček, mirata a creare una partitura il cui effetto spettacolare risiede nella forza delle frasi cantate dagli interpreti, che riempiono la sala. Così il tenore Richard Samek e lo statuario basso Josef Benci, dalle voci centrate e potenti; completa il quartetto il mezzosoprano Jarmila Balážová. Il pregio di questo cast vocale è che è tutto cèco, così da donare una dizione perfetta e la miglior resa possibile del glagolitico. Gli unici momenti in cui gli interpreti cantano assieme è il Sanctus, avvolto da un’atmosfera allucinata e sospesa, e l’Agnus Dei, vibrante di una tensione interna che trapela appena dalla scrittura eterea. La direzione di Hrůša è piena, possente; il direttore più volte solleva l’orchestra e il coro per volume, o scatena le cellule ritmiche che costituiscono l’intelaiatura della partitura. Il direttore sa cogliere, comunque, anche i momenti più cupi, introspettivi o semplicemente sommessi, come l’iniziale Kyrie o l’incipit del Sanctus. Sotto la bacchetta di Hrůša orchestra, coro e solisti regalano una straordinaria interpretazione, che merita gli applausi tributati dal pubblico.


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