Tre volti del barocco
di Roberta Pedrotti
Anche quest'anno il festival Concerts d'automne di Tours ha unito qualità a cura dei dettagli e spunti di riflessione, con un ultimo fine settimana che delinea diversi volti del barocco: dal cosmopolitismo portoghese al Rinaldo di Händel alla ricreazione teatrale di antichi temi popolari, fra diversi registri, influenze, contesti, gruppi strumentali e identità vocali.
TOURS, 14-15-16 ottobre 2022. Il diavolo sarà anche nei dettagli, ma nei dettagli stanno pure geni benevoli. Tours, se si guarda in generale, ha tutto ciò che serve per un festival: un bellissimo teatro firmato da Garnier, la Loira che l'attraversa e i castelli nei dintorni, un centro delizioso che armonizza medioevo autentico, ottocento Secondo Impero e contemporaneo, la tranquillità della provincia e la vitalità del centro universitario. Poi, però, ci sono i dettagli, quelli che fanno di un bel festival un luogo del cuore: l'ospitalità squisita, sobria e sincera ti fa sentire a casa senza smancerie o lusinghe, tutto si fa con un sorriso, le ore di viaggio all'andata non pesano, al ritorno ci fanno scalpitare per il prossimo anno.
Quest'anno, il secondo e ultimo weekend del festival fa palpitare il cuore barocco dei Concerts d'automne, con tre appuntamenti doversi e complementari che ci offrono tre diversi volti, tre diversi modi di intendere il repertorio intorno a Sei e Settecento.
È un viaggio multiplo nello spazio, nel tempo, nella vocalità, per scoprire diverse declinazioni di cosmopolitismo, tradizioni, identità e fluidità.
Venerdì 14 ottobre ci immergiamo nel barocco portoghese, idiomatico - ce ne rendiamo subito conto al di là del puro aspetto fonetico - e pure attento a modelli anche italiani. Il percorso si snoda su due piani sociali: la musica di corte e quella popolare, naturalmente non da intendersi nel senso più moderno di contadini, operai e artigiani, bensì nell'accezione propria di una borghesia (ma anche di fasce del clero e della nobiltà) colta. Musica che non è legata al cerimoniale di corte, ma non è nemmeno quella delle osterie e del lavoro nei campi, per quanto possa ammiccare ad alcuni moduli e ritmi. Difatti, nella sezione "popolare" si ascolta il fandango, ma anche un sofisticatissimo Sospiro, musica di Giuseppe Totti su versi di Paolo Rolli.
Sul piano vocale, in locandina leggiamo la dicitura "countre tenor", ma appena Bruno De Sà apre bocca è chiaro che siamo di fronte a un soprano vero. Non un sopranista, non un falsettista, ma un giovane uomo adulto il cui apparato fonatorio corrisponde per natura in tutto e per tutto a un registro sopranile. Anche piuttosto acuto, ché la voce acquista corpo e armonici via via che la tessitura sale. Basta chiudere gli occhi e non si avverte la differenza rispetto ad Ana Quintans; o, meglio, s'intende la differenza di timbro, ma non di genere nella voce. Anzi, nel duetto dall'Isola disabitata di Davide Perez “Caro sposo tu non sai”, è De Sà a sostenere il ruolo femminile, mentre a Quintans va quello femminile, coerentemente con le rispettive tessiture, nell'assoluta spontaneità che questa musica richiede per superare schemi culturali artificiali e dare spazio alla varietà dell'arte e della natura. Il che non significa affatto confusione, ché la libertà barocca si iscrive sempre in una logica di parametri estetici e retorici che qui sono felicemente compresi e rispettati, anche quando ci si lascia andare. Non c'è, infatti, solo la ricercata semplicità del Sospiro a strapparci per un attimo anima e lacrime, ma ci sono anche pagine di scatenata ironia in cui i cantanti ammiccano, giocano, De Sa addirittura danza e non lo fa per furbesco ammiccamento, ma con sincera gioia di cantare e condividere anche fisicamente la musica con il pubblico. È lui, inevitabilmente, il beniamino della serata, ma ancor più per questo si apprezza la sua capacità di non lasciare mai indietro la collega, di non soverchiarla, né dimenticarla mai nei ringraziamenti alla ribalta. E Ana Quintas quegli applausi se li merita tutti per la forbitezza e lo spirito del suo canto.
Cosmopolitismo, società e relativi moduli espressivi, voce e genere... Un altro cardine di questi tre giorni musicali a Tours è costituito dalle diverse compagini strumentali che si alternano nei concerti al Grand Théatre. Con De Sà e Quintas abbiamo il Divino Sospiro diretto da Massimo Mazzeo, che passa agevolmente dal linguaggio aulico di serenate e oratori per la corte a quello più esuberante di modinhas e canzoncine, trascritte dagli originali per lo più per chitarra o tastiera. La morbidezza dell'impasto non manca, allora, di allegra esuberanza nei pezzi più pimpanti (pensiamo che nessuno possa essere uscito dal teatro senza canticchiare “Ay amor, amor, amor...”)
Il 15 ottobre si cambia di nazione, di genere e di registro la serata successiva. Si cambia, ma non troppo, ché il Rinaldo di Händel è pur sempre il capolavoro cosmopolita di un sassone formatosi in Italia e appena approdato a Londra, perché il soggetto ariostesco stuzzica diversi piani espressivi del sentimentale, dell'eroico e del fantastico, perché anche qui, ovviamente, si svincola la voce – e il cantante – dalle rigide classificazioni di genere. Goffredo, condottiero crociato e padre di Almirena, è il controtenore Filippo Mineccia e stavolta, a differenza di De Sà, la definizione di contraltista calza a pennello, ché il fiorentino è fra i migliori esponenti della categoria, musicista intelligente, autorevole nell'accento, sciolto in un canto affinato sia nel virtuosismo sia nel legato patetico. Per contro, Rinaldo è una donna, Delphine Galou, che non esita a definire l'eroe con tailleur pantaloni, vertiginosi tacchi a stiletto giustamente aggressivi, sguardi e baci con la sua Almirena anche in forma oratoriale. Siamo, infatti, ai confini della versione semiscenica, con gli abiti da concerto che parlano come costumi teatrali: la detta Almirena scintilla d'argento come una principessa Disney al ballo, mentre Armida nell'abito nero svela un profondo spacco e ricorda Grimilde o Malefica. Entrambe si differenziano a meraviglia anche nel timbro e nell'accento: Arianna Vendittelli sa essere tagliente, feroce o disperata senza per questo rinunciare alla qualità vocale e alla perizia musicale; Francesca Aspromonte è un'Almirena per nulla remissiva: tenera e innocente, sì, ma anche maliziosa, decisa e innamorata, oltre che ammaliante per la tornitura del canto e dell'emissione. Si tratta, in quest'ultimo caso, di una fortunata sostituzione dell'ultimo momento (prevista e costretta a rinunciare per ragioni di salute Sophie Rennert) che riguarda anche Argante, con Luigi De Donato che subentra a Federico Sacchi pure indisposto e offre un personaggio autorevole, franco e vigoroso, che ben sottolinea la differente caratterizzazione dei personaggi cristiani rispetto ai maghi “infedeli”. Così si ricompone anche in gran parte il cast dell'incisione diretta da Ottavio Dantone, che anche oggi opta per la sua personale sintesi mista, che attua ampi tagli e mescola le versioni del 1711 e del 1731 (da quest'ultima, il Mago cristiano in chiave di basso, qui Federico Benetti). Elaborazione per molti versi discutibile, ma che può reggere in concerto semiscenico più che in disco, contando sulla sapida narrazione fuori campo di Damien Colas (capolavoro di sintesi e completezza, come del resto la sua conferenza introduttiva), sulla qualità di molte voci, sulla partecipazione di tutti, sulla bellezza del suono dell'Accademia Bizantina, cui si può perdonare qualche incidente nelle trombe in virtù di un'amabile e levigata condotta complessiva.
E siamo, dunque, giunti alla fine, il 16 ottobre con il commiato della domenica pomeriggio che anche quest'anno propone un'originale drammatizzazione. Si chiama Amore siciliano, anche se la radice è nella calabrese Canzone di Cecilia, antica ballata che proprio Francesca Aspromonte ha fatto conoscere a Leonardo García Alarcón, direttore della Cappella Mediterranea. È annunciata come un'opera, ma forse sarebbe più esatto parlare di un lungo madrigale rappresentativo che verte sulla canzone popolare (meravigliosa nella sua toccante semplicità) come fil rouge nel quale si innestano pagine tradizionali o madrigali e cantate di, tra gli altri, Sigismondo d'India, Cataldo Amodei, Alessandro Scarlatti. Le voci corrispondono ai personaggi, ma possono anche astrarsi come narratori o parti polifoniche in una drammaturgia che all'inizio calca volutamente la mano sul pittoresco e perfino sul comico (dalla preghiera alla Vergine alla canzone d'U ciucciu) per poi concentrarsi sempre più nella vicenda di una Tosca ante litteram: nonostante il fidanzato Peppino (Matteo Bellotto) l'abbia messa in guardia a badare prima al proprio onore, Cecilia (Ana Vieira Leite) accetta per salvarlo di concedersi al Capitan Maggiore (Valerio Contaldo), il quale manderà tuttavia Peppino al patibolo. Morendo Cecilia, esprime il desiderio di scavare una fossa profonda per tutte le donne “così finisce il mondo”. Come si può facilmente intuire, l'impatto emotivo di questa tragedia cullata come dolcissima berceuse può essere dirompente. E, difatti, lo è, anche grazie alla prova di Vieira Leite, che trova un'intensissima controparte in Mariana Flores, Donna Isabella, aristocratica solidale e pure corteggiata – con ben altri modi – dal Capitan Maggiore. Questi, nell'interpretazione di Contaldo, cresce via via dominando varietà di colori e intenzioni. Il controtenore Léo Fernique completa le armonie con voce sottile con il nome scenico di Santino. Grande merito va poi ad Alarcón, autore anche del madrigale sul tema della Canzone di Cecilia che apre la sequenza dell'epilogo. La peculiarità esuberante della Cappella Mediterranea (un solo violino con una viola da gamba, contrabbasso, arciliuto, tiorba, chitarra, arpa, due flauti, cornetto, fagotto) qui è messa al servizio della radice popolare del tema portante con piena coerenza di strumentazione, senza mai risultare sopra le righe, anzi conferendo a una presenza sonora fuori dal comune (sentir così bene viole da gamba e tiorbe non è scontato) tutta l'intensità patetica che la situazione richiede. Ed ecco, allora, che anche in una drammaturgia musicale moderna si esprime una visione del barocco come incontro di influenze, registri, varietà che non si confondono, ma dialogano in un linguaggio ben definito e regolato come veicolo degli affetti.
Ogni concerto è un successo, ogni concerto esige almeno un bis (perfino Rinaldo, con il coro finale). Soprattutto, all'ultimo brindisi, esige un ringraziamento speciale da parte del direttore artistico Alessandro Di Profio a “ceux qui travaillent dans l'ombre”, a tutti coloro che sono dietro le quinte e contribuiscono a realizzare quei dettagli di classe che fanno la differenza.