Le ombre del potere
di Luigi Raso
Slittata per lutto a quella che avrebbe dovuto essere la seconda recita, l'inaugurazione della stagione del Teatro di San Carlo ha come punti di forza le prove di Ludovic Tézier, Elina Garanca, Michele Pertusi e del coro, oltre all'interessante lavoro registico di Claus Guth, che scandaglia il rapporto fra il potere e le relazioni sociali e familiari. Non all'altezza delle aspettative, invece, la concertazione di Juraj Valčuha.
NAPOLI, 29 novembre 2022 - Ogni nuova produzione di Don Carlo è per qualsiasi teatro una sfida che fa tremare le vene e i polsi. In primo luogo si pongono degli interrogativi da risolvere. Quale versione di Don Carlo(s) mettere in scena? Quella in francese o quella in italiano? E in cinque o quattro atti?
Risolti i primi interrogativi, occorre decidere a quale regista affidare la messa in scena, a chi la direzione d’orchestra. E quali artisti invitare per vestire i panni dei sei protagonisti dell’opera?
Per l’inaugurazione della Stagione lirica di balletto 2022 - 2023 il Teatro San Carlo decide di fare le cose in grande, optando per la versione di Don Carlo in cinque atti, la cosiddetta “versione di Modena” del 1886, proposta al San Carlo una sola volta, nel dicembre del 1976.
Per il Don Carlo di stasera - che arriva a ben ventuno anni dall’ultima rappresentazione (versione in quattro atti, quella del 1884) - la regia è affidata al regista tedesco Claus Guth, al suo debutto al Teatro San Carlo: la regia è incentrata sulla personalità fragile, malata e tormentata dell’Infante Carlo. È un mondo oppresso dal potere quello nel quale si aggira il protagonista; un ambiente tossico che in nome della ragion di Stato ha fatto strage delle sue illusioni d’amore. Il potere è protagonista subdolo e strisciante dell’opera: da esso tutti i personaggi sono schiacciati.
Claus Guth individua in Don Carlo l’anello più debole di un sistema di relazioni familiari e sentimentali dominato, inaridito e annientato da un potere pervasivo e anonimo. A governare le sorti del mondo - ci raccontano il regista e la drammaturga Yvonne Gebauer - oggi non è il potere religioso, ma uno non identificabile, subdolo e nero, ramificato: il motore immobile di questa concezione registica è la figura del Grande Inquisitore, non più un frate domenicano cieco e tetragono, ma un grigio uomo contemporaneo, un “grande burattinaio” che si avvale della cooperazione servile di accoliti dal volto incappucciato e nero come la loro anima.
A questo microcosmo - che è anche uno spaccato del nostro presente - si contrappone una figura anarchica e dissacrante, quella del mimo di Fabián Augusto Góme, eccezionale attore affetto da nanismo: è un personaggio aggiunto da Guth, molto presente in scena. È l’unico uomo che ha licenza di irridere i potenti: è ora giullare (è chiaro il riferimento ai dolenti buffoni presenti nelle tele di Diego Velázquez; il trucco di Fabián Augusto Góme riproduce quasi pedissequamente le sembianze del buffone di corte don Sebastiàn de Morra ritratto dal pittore sivigliano e conservato al Museo del Prado), ora assimilabile alla figura del munaciello napoletano, ora alter ego di Carlo stesso: è il mimo/buffone a sottolineare con una gestualità eloquente e appropriata i momenti salienti dell’opera. In una rappresentazione del mondo irreggimentata e asfittica, il buffone è un elemento di disturbo; l’anelito alla libertà che si contrappone all’esercizio brutale del potere.
La scenografia di Etienne Pluss, pur nella sua essenzialità, rende bene l’idea di un ambiente opprimente, recintando lo svolgersi della trama in una sala claustrofobica.
Nel corredo scenografico non mancano i riferimenti architettonici al ‘500 spagnolo, grondanti di cupa religiosità: gran parte del dramma si svolge all’interno di una sorta di coro/tribunale ligneo cinque-seicentesco. Tuttavia, pur non riscontrandosi calligrafismo, né precisione storica nella ricerca dei richiami iconografici (la riproduzione della famiglia del re di Spagna Carlo IV di Francisco Goya è del 1800, successiva di più di due secoli rispetto ai fatti narrati in Don Carlo; Carlo IV era un Borbone e non un Asburgo, come invece era Filippo II), ciò che rileva è il rimando all’elemento familiare, nucleo umano in Don Carlo pervaso da laceranti conflitti.
Ad amplificare e sottolineare la tinta noir dell’opera ci sono le luci di Olaf Freese, disposte in modo tale da proiettare le ombre giganti dei personaggi sul fondale: e così appaiono uomini e donne che si trascinano per la corte, simili a fantasmi, prosciugati della loro umanità, annichiliti.
In questo impianto ben si innestano i sobri ed eleganti costumi di Petra Reinhardt, oscillanti tra riferimenti alla contemporaneità (quelli di Don Carlo e del Grande Inquisitore), all’ottocento e, soprattutto, a quelli austeri e cinquecenteschi di Elisabetta e della principessa Eboli.
La recitazione è molto curata, grazie a un parterre di cantanti-attori di primordine, imperniata su una stringente e carnale relazione tra i personaggi. Tuttavia, non mancano trovate originali ma discutibili: la Voce dal cielo, al termine dell’Autodafé, attraversa l’intero palcoscenico da destra a sinistra, vanificando così la teatralità dell’intervento concepito da Verdi; all’inizio dell’atto IV, Filippo è mostrato non dopo aver trascorso una notte insonne a meditare sulla morte, ma reduce da una notte di sesso con la favorita principessa di Eboli, con tanto di sigaretta accesa prima di congedare frettolosamente l’amante.
Ma nel complesso, a parere di chi scrive, quella di Claus Guth è una regia che scandaglia in profondità il fulcro dell’opera, le molteplici declinazioni delle dinamiche del potere, dall’ambito familiare a quello dello Stato, della religione, indagandone i riverberi devastanti sulle personalità dei protagonisti. E non è il racconto e la condanna del potere tout court uno degli aspetti salienti dell’indagine di gran parte della produzione di Giuseppe Verdi stesso?
Restando all’aspetto scenico, le proiezioni video di Roland Horvath conferiscono una patina di poetica nostalgia al dramma: sottolineano, come dei flashback, la storia dell’amicizia tra Carlo e Posa, sin dalla loro fanciullezza; video che ci mostrano il progressivo perdersi dei protagonisti, il loro lento fluire nella solitudine.
A fronte di una lettura registica improntata a un’analisi approfondita del dramma, purtroppo non corrisponde, contrariamente alle aspettative, una concertazione indagatrice delle pulsioni interne della partitura di Don Carlo, una lettura rivelatrice delle gemme strumentali, dei colori in essa presente. Ed è un peccato, perché questo è un testo dal carattere “sinfonico”, astrattamente congeniale a un attento e raffinato direttore qual è Juraj Valčuha. Ma Don Carlo è sempre stata opera insidiosa, in passato terreno di inciampo anche per blasonate bacchette.
Dalla concertazione di Juraj Valčuha ci si attendeva ben altro rispetto alla tendenziale correttezza della sua lettura.
La conduzione, infatti, appare apatica, senza nerbo - giusto per adoperare un termine che Verdi stesso riferisce a Don Carlo -, nel corso della quale appaiono non efficacemente sottolineati i momenti di maggiore drammaticità dell’opera, così come quelli, altrettanto splendidi, di intenso lirismo; manca, nella concertazione di Valčuha, quella cura all’effetto orchestrale al quale il maestro slovacco ha abituato e viziato il pubblico del San Carlo nel corso degli anni della sua direzione musicale. È una lettura corretta, in crescendo, che nell’atto V trova i suoi momenti migliori, ma che, per l’elevate aspettative che è lecito coltivare da un direttore scrupoloso e analitico come Valčuha, in definitiva lascia con un senso di incompiutezza.
Eccellente, ed è una piacevole costante da tempo, la prova dell’orchestra del San Carlo, ben amalgamata in tutte le sezioni.
In un’opera - o, meglio, un grand opéra - in cui al Coro è assegnato il ruolo di settimo protagonista, quello del San Carlo, guidato da José Luis Basso, è perfetto nell’esprimere con voce possente, malgrado la collocazione acusticamente infelice che gli assegna il regista durante la grande scena dell’Autodafé, il barbarico sentimento di gioia popolare; è efficacissimo a inondare di cupezza la scena del chiostro di San Giusto dell’atto II e, quello femminile, di ilarità i giardini della Regina a Madrid nell’atto III.
E poi il cast di Don Carlo: sei grandi voci per sei ruoli che nascondo notevoli insidie esecutive e interpretative.
L’ordine della locandina impone di scrivere del Filippo II di Michele Pertusi: al grande basso parmigiano bastano poche battute per sfoggiare la propria statura di artista. Il suo è un Filippo dolorante, tormentato, divorato dal sospetto; e se talora non sfoggia mezzi vocali adeguati alla scrittura vocale, al peso specifico richiesto nei momenti di maggior concitazione drammatica, è l’intelligenza dell’interprete a supplirvi. Il suo "Ella giammai m’amò" è toccante: il tiranno si dimostra in tutta la sua umana fragilità, anch’egli vittima dell’illusione d’amore.
Matthew Polenzani, tenore dall’estrazione belcantistica, è un Don Carlo dal canto cesellato e sfumato, ma lo spessore e il peso specifico della vocalità, sebbene ben proiettata, appare poco adeguata a quella “eroica” che la parte dell'Infante richiede. È nei momenti lirici dell’opera, sussurrati a fior di labbra dal tenore statunitense, che convince maggiormente. S’impone, tuttavia, per le doti di attore: il suo un ragazzo nevrotico, al quale la regia chiede movimenti improvvisi e inconsulti, resi con estrema naturalezza.
Nobile, dalla voce compatta in tutti i registri, dal bel velluto timbrico è il marchese di Posa di Ludovic Tézier che finalmente debutta nella sala del San Carlo. Il suo Rodrigo convince immediatamente per la bellezza e l’omogeneità del timbro, per l’interpretazione altera e raffinata dell’amico di Don Carlo. Nel duetto con Filippo duella vocalmente con il Re, imponendosi per l’enfasi drammatica della linea di canto, la sicurezza degli acuti e per il fraseggio scolpito e intenso. Infine, resta impressa tutta la scena dell’atto IV, il lungo addio di Rodrigo alla vita e all’amico: Ludovic Tézier incupisce la sua linea solida e fluida, evocando quel doloroso e lento distacco che l’aria esprime. Quella di Tézier, insieme a quella della principessa Eboli di cui diremo, è senza dubbio la prova vocale più convincente della serata.
Qualche suono ingolato di troppo offusca la buona prova del Grande Inquisitore di Alexander Tsymbalyuk, il quale sconta, nel confronto con il Filippo di Michele Pertusi, un timbro troppo chiaro.
Per l’Elisabetta di Ailyn Perez valgono le stesse considerazioni espresse per il Don Carlo di Matthew Polenzani: anche il soprano statunitense non appare, per peso vocale e organizzazione, del tutto appropriata alla insidiosa parte di Elisabetta. Il timbro è gradevole e suggestivo, l’interprete raffinata, eppure è costretta a fare i conti con la carenza di spessore sonoro nel registro basso e con qualche forzatura di troppo nella linea di canto.
Elīna Garančaè un principessa Eboli dalla personalità artistica nobilissima, altera, raffinata e magnetica: se appare emotivamente trattenuta nella Canzone del velo iniziale, nel corso della serata la sua prova cresce - e molto! - fino a giungere a un "Oh don fatale"intenso, incisivo, che catalizza l’attenzione per l’intensità dell’interpretazione vocale e scenica. L’innata eleganza, l’avvenenza della figura, le doti di attrice, la suggestione del timbro e l’acume dell’interprete contribuiscono a disegnare una Eboli seducente per sfoggio dei mezzi vocali e per un fraseggio incisivo e di spiccata intensità drammatica.
Tra i ruoli secondari, essenziali alla realizzazione di un affresco musicale delle proporzioni di Don Carlo, si segnala in primo luogo l’eccellente prova del Frate di Giorgi Manoshvili, inquietante nel suo apparire in apertura dell’atto II e alla fine dell’atto V.
Precisa durante il discutibile passaggio sulla scena la Voce dal cielo di Maria Sardaryan, allieva dell’Accademia Teatro di San Carlo.
Infine, meritano una menzione il Tebaldo di Cassandre Berthon, il conte di Lerma di Luigi Strazzullo e l’Araldo reale di Massimo Sirigu, entrambi artisti del Coro, così come i sei deputati fiamminghi.
Al termine dello spettacolo, che a seguito dell’annullamento della serata inaugurale della Stagione lirica in segno di lutto per le vittime dell’alluvione di Ischia, è giocoforza diventato la première di Don Carlo, il pubblico ha premiato gli artefici di questa imponente produzione con applausi prolungati, benché non calorosissimi; qualche isolato dissenso è stato rivolto nei confronti del regista Claus Guth.