La maschera di Dioniso
di Roberta Pedrotti
Daniele Menghini firma per il Macerata Opera Festival una nuova produzione di Carmen di grande impatto e profondità, tanto ricca di dettagli, riferimenti e possibili chiavi di lettura quanto coerente e avvincente. Non altrettanto riuscita la concertazione di Donato Renzetti, direttore musicale dello Sferisterio.
MACERATA, 6 agosto 2023 - C'è ancora qualcosa da dire su Carmen? Qualcosa che giustifichi un vero nuovo allestimento e non un semplice aggiornamento di gusto che rinfreschi i costumi, cambi le divise, riveda balze, ventagli, pettini e mantiglie ma, in fin dei conti, non cambi nulla? Lo Sferisterio, che l'opera di Bizet l'ha proposta con frequenza e regolarità in diverse produzioni, ci prova e chiede una conferma al giovane regista che, lo scorso anno, aveva fatto meraviglie in un altro campo minato, Il barbiere di Siviglia [leggi la recensione].
Daniele Menghini prima di tutto ha tecnica: anche quando anima la scena di mille dettagli non ne perde uno, lo connette nel tessuto generale, non lascia che sia mero horror vacui a guidarlo, fa sì che i fatti e i personaggi principali siano sempre chiari e distinguibili, seppur inseriti in un microcosmo che pullula di simboli, riferimenti e narrazioni. Questo perché non solo sa come fare, ma sa cosa fare: ha idee chiare, solide, strutturate, complesse ma non astruse. Ci sono, in questa Carmen, molti possibili livelli di lettura, molti significati, simboli nel senso etimologico di συμβάλλω (symballo: unisco, incontro, interpreto). Talvolta la costruzione intellettuale consente perfino di superare il piano dell'analisi razionale e seguire il filo si suggestioni e associazioni d'idee che hanno, alla fine, sempre senso e forza.
Gli zingari, gli irregolari, i contrabbandieri sono qui come attori girovaghi, maschere che dicono il vero e si muovono ai margini della società, con riferimento storico e metaforico che guarda al teatro e alla commedia dell'arte come fatti ma anche come portatori di messaggi. L'Arlecchino primordiale è un'immagine demoniaca, la nascita della tragedia classica è connessa a riti sacri, al sacrificio di un capro (espiatorio), animale che poi il cristianesimo assocerà a Satana ma che rappresenta la natura, l'istinto, il mondo ctonio represso da ragione e religione. Il teatro lo svela, svela il non detto, libera il corpo e il pensiero: per questo è pericoloso. Come Carmen, che muore al pari del toro e del capro. La tauromachia, testimoniata almeno fin dalla Creta minoica, si lega concretamente allo spazio, allo Sferisterio dove pure la si praticò e che quindi si specchia come spazio scenico negli elementi disegnati da Davide Signorini, che ne fanno arena, piazza e teatro. Il luogo stesso si fa attore, indossa una maschera per svelare il vero indicibile, rinnova il suo scandalo – e lo scandalo ben più grave di chi vorrebbe nel teatro un vuoto sollazzo ricreativo – quando l'ultimo confronto fra Carmen e José, vittima consapevole e predestinato esecutore, si consuma mentre sul recinto si ripete parte della scritta che troneggia all'esterno dello Sferisterio “A pubblico diletto”.
È una Carmen per molti versi pagana, pagana e sincretica, con un torero / San Giorgio pronto a compiere il rito dell'uccisione del drago. Forse sarebbe piaciuta a Nietzsche per il suo aspetto dionisiaco e primordiale inscindibile dal principio della tragedia, del teatro, del sacro, ma anche dalla leggerezza del suo danzare nei costumi d'Arlecchini d'ogni epoca, fra riferimenti a storici spettacoli, di fronte a stravaganti parate di occhiuti osservatori (pare un carnevale à la Ensor, la firma è di Nika Campesi). La bandiera della libertà è pure un arcobaleno di rombi arlecchineschi in cui trionfa una Corte dei miracoli gioiosa e sinistra, lieve e infera. Il potere, con le sue squadracce nere, cerca di ingabbiarla, toglie gli abiti variopinti ai bimbi per infilar loro divise cupe, brucia libri che Carmen sottrae alle fiamme. Tuttavia, la sera, anche i militari si mescolano al popolo libero e Zuniga si aggira come un Claude Frollo sulle tracce di Esmeralda. Il gioco di ruoli, finzioni, volti e maschere non si ferma mai; a condurlo, scandendo atto dopo atto con un monologo del drammaturgo Davide Carnevali, c'è Valentina Picello, perturbante “Arlecchina”. Forse si potrà ritenere superfluo questo parlato, che in qualche modo riecheggia anche i rapporti originari dell'opéra comique là dove si attua la scelta (comprensibilissima all'aperto) della versione Guiraud; eppure, è tanto interessante, denso e coerente il discorso impostato da Menghini, che non ci importa tanto pensare a cosa noi avremmo voluto, quanto piuttosto seguire ciò che lui ha voluto dirci e mostrarci, quel che lui ha ritenuto necessario. Anche questo è teatro: incontrarsi e ascoltare l'altro.
Certo, per un incontro completo sarebbe stato opportuno poter godere di una lettura musicale di pari livello e interesse. Non si dica che un disegno registico complesso, articolato e magari audace debba soffocare la musica: se gli artisti sanno il fatto loro e lavorano insieme, il problema non si pone. Penso a quanto di memorabile Graham Vick ha fatto con Vladimir Jurowski o Michele Mariotti, che non passavano certo inosservati sul podio; o al Mefistofele secondo Carsen visto con la direzione di Bruno Bartoletti, ai Dialogues des Carmelites con Muti; a mille altri esempi fra cui c'è pure Il barbiere dello scorso anno qui a Macerata. Donato Renzetti, purtroppo, si accontenta di una lettura di routine, piuttosto uniforme nell'agogica – tendenzialmente lenta – e rinunciataria quanto a eros, vitalità, colori, né sempre attentissima al rapporto con il palco. Per renderci conto che la Chanson Bohème è quel che è dobbiamo affidarci praticamente solo alla coreografia di Virginia Spallarossa, che ci regala un crescendo di acrobazie orgiastiche d'ogni sorta senza una punta di volgarità.
Offrono sempre una prova di qualità a conferma del livello professionale su cui si regge l'estate dello Sferisterio la Filarmonica marchigiana, la Banda Salvadei, il Coro Bellini preparato da Martino Faggiani e i Pueri cantores D. Zamberletti preparati da Gian Luca Paolucci, insieme con attori, danzatori, figuranti e con gli sbandieratori di Servigliano.
Anche il cast è di livello generalmente più che affidabile, né, in effetti, il podio richiede molto più di questo o cuce addosso a voci e personalità un'interpretazione ad hoc. Ketevan Kemoklidze è una Carmen di bell'aspetto, colori cupi nei gravi e più sottili in acuto, molto ben immedesimata nel suo ruolo archetipico. Ragaa Eldin evita intemperanze ed è un saldo Don José, Roberta Mantegna una Micaëla dolce ma non svenevole. Meno a fuoco l'Escamillo di Fabrizio Beggi, in difficoltà soprattutto nel terzo e nel quarto atto. Francesca Benitez e Alessandra Della Croce sono due affascinanti Frasquita e Mercédès; Andrea Concetti uno Zuniga presente e incisivo, così come Paolo Ingrasciotta nei panni di Moralès. Bravi anche il Dancaïre di Armando Gabba e il Remendado di Saverio Fiore, ruvidi e poco rassicuranti: peccato che il quintetto non sia stato il pezzo più felice nella bacchetta di Renzetti.
Alla fine, sotto le stelle, un sospiro di sollievo: nonostante le previsione minacciose, il meteo ha risparmiato quest'ultima recita e se non si può dire che facesse caldo, nemmeno si agghiacciavano i brividi della sera precedente. Pubblico numeroso, applausi calorosi per tutti, la consegna a Donato Renzetti della medaglia in bronzo commemorativa dello Sferisterio, realizzata dallo scultore Valeriano Trubbiani e una buona notizia: le numerose telecamere fanno presagire un video ufficiale. Lo spettacolo lo merita (anzi: peccato solo non averci pensato anche un anno fa per Rossini) e ci conforta nel pensiero che si possa ancora andare a teatro per riflettere, confrontarci, essere liberi.