L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Opera non melodrammatica

di Luca Fialdini

Molti applausi per l’apertura di stagione del Teatro Sociale di Como con una Zauberflöte in cui convincono la regia di Stefanutti e la direzione di Meena

COMO 28/09/2023 – Die Zauberflöte è un titolo tanto fruibile quanto denso di ambiguità, segreti, e scelte deliberatamente fuorvianti che, volendo cercare di decifrare i molti livelli di lettura regalatici dalla coppia Mozart/Schikaneder, è davvero difficile non smarrire l’orientamento nel labirinto del cammino iniziatico per eccellenza nel mondo dell’opera.

Già le premesse portano molto lontano rispetto a come ci ha abituati Mozart fino al settembre 1791: si mettono da parte le grandi strutture melodrammatiche – pure presenti nell’altro, egualmente falso, Singspiel: Die Entführung aus dem Serail – che avevano raggiunto il massimo splendore nella trilogia italiana in favore di una fiaba musicale conscia della sua natura, si mettono da parte le statue (attenzione, anche di borghesi!) in favore di figure rozzamente intagliate nel legno, cioè gli archetipi tolti dal mondo fiabesco, ed è da queste effigi che l’opera trae la sua forza e una delle sue più importanti ambiguità perché se è vero che la fiaba è un camouflage per raccontare qualcosa d’altro, è altrettanto vero che non si tratta di un elemento secondario e l’allestimento uno e trino di Ivan Stefanutti riesce a mettere bene a fuoco questa dicotomia.

Le scene e i costumi firmati da Stefanutti spostano l’ambientazione dall’Egitto massonico a un oriente generico, dove abbiamo alcuni rimandi al mondo egizio-arabo ma soprattutto all’estremo oriente, in particolare all’India, alla Cambogia, all’Indonesia e alla Cina. Questa fusione di abiti “alla giavanese” (come peraltro previsto dal libretto per Tamino), baffi alla Fu-Manchu, turbanti, veli, serpenti, draghi e architetture con decorazioni floreali ha non genera confusione, piuttosto conferisce alla scena quel senso di sospensione onirica che il titolo richiede. Il comparto visivo è splendido, dal serpente con l’enorme lingua ai dettagliatissimi costumi delle Drei Damen, un contesto in cui non bisogna sottovalutare gli specifici gesti scenici che il regista chiede a solisti e coro; sembra quasi che Stefanutti si sia divertito a eliminare riferimenti simbolici precisi dalla scena – con eccezione, ad esempio, delle tre rocce sospese e dei draghi – per poi reinserirli nella gestualità, una soluzione senza dubbio originale e poco prevedibile.

Da sottolineare anche l’eleganza di una regia non invasiva che si dimostra estremamente conscia degli effettivi nodi salienti della drammaturgia riuscendo a farli intendere senza alcuna evidenziazione enfatica, pure mantenendo in perfetto equilibro i tratti comici e quelli seri dell’opera. Stefanutti delinea con efficacia lo spirito di questa «favola della ragione» come espressione dell’utopia illuminista, un cammino iniziatico che coinvolge i due poli dell’uomo, quello razionale (Tamino e Pamina) e quello naturale (Papageno), un inno alla sua perfettibilità. In questa lettura del Singspiel è facile constatare come i Lumi coincidano con le idee di libertà ed evoluzione personale e l’utopia è proprio il percorso che porta l’eroe Tamino al consapevole esercizio della Ragione attraverso le prove cui lo sottopone Sarastro, quindi attraverso rinuncia (Prova del Silenzio), disciplina e autocontrollo (prove relative ai quattro elementi, Acqua, Aria, Terra e Fuoco).

Ci sono alcune libertà che il regista si prende rispetto alla partitura, come la decisione di eliminare la figura dei due armigeri che in effetti vengono interpretati dai due sacerdoti, ma tutto è coerente sia con la drammaturgia sia con l’impianto registico, proprio come le ottime luci di Emanuele Agliati che si integrano così bene con la visione di Stefanutti. A proposito di libertà, la cosa più singolare sono due scelte relative ai dialoghi, vale a dire la traduzione in italiano e il reintegro di quelle sezioni dialogate che di solito vengono tagliate (era ora). La traduzione è ben eseguita e sicuramente consente di seguire lo svolgimento dell’azione con più agio, anche se il continuo salto da una lingua all’altra, pur non fastidioso, sulle prime è per lo meno strano.

Molto buona la direzione di James Meena, brillante e incisiva quando richiesto, con tempi comodi per il canto ma non blandi. Si nota una felice comunione d’intenti fra direttore e regista, con le idee di palco e buca che non solo procedono nella medesima direzione ma si sostengono vicendevolmente. In questo senso si possono interpretare alcune scelte peculiari nei tempi, come l’Andante del quintetto del primo atto («Drei Knäbchen, jung, schön») eseguito leggermente più lento del solito o la tesa introduzione del duetto degli armigeri. In alcuni momenti si vorrebbero forse tempi appena più tirati, come nelle colorature su «So sei sie dann» in “O zittre nicht”, ma questo nulla toglie all’ottimo risultato dell’esecuzione.

Quel che colpisce di più nella direzione di Meena è l’attenzione scrupolosa per i colori tanto dell’orchestra quanto dei cantanti, una scelta che consente di declinare felicemente le molte anime della Zauberflöte. Rintocchi energici cedono il passo a paesaggi più rarefatti per poi venire sorpresi da arguzie inaspettate (le quartine di crome in levare verso la fine del “Wie, wie, wie?” o i fagotti a due in unisono con Papageno nel “Pa pa pa Papagena”). Degna di nota la cura anche in numeri a cui troppo spesso si dedica poca attenzione, come quel piccolo gioiello del “Bewahret euch”. Meena dimostra di avere le idee chiarissime e l’Orchestra dei Pomeriggi Musicali lo segue molto bene, peraltro con un bel bilanciamento delle sezioni: il gruppo degli ottoni si amalgama bene sia con i legni sia con gli archi (un esempio delizioso sono le ottave ribattute di corni e violini primi a batt. 105-106 del quintetto “Hm! hm! hm!”) e il gruppo dei legni in combinazione con i corni evoca l’autentica magia della Zauberflöte e più in generale dell’ultimo Mozart.

Bene il Coro di OperaLombardia preparato da Massimo Fiocchi Malaspina, sempre adeguato e dalla presenza solida, con la sola eccezione del coro maschile che risulta stranamente inefficace nell’invocazione “O Isis und Osiris, welche Wonne!”, nonostante la rappresentanza non esigua.

Il cast nel suo insieme si presenta ben affiatato e senz’altro all’altezza di un titolo in cui è verissimo il detto “non esistono piccole parti”. Bene in parte Alberto Comes (Oratore, Primo sacerdote, Secondo armigero) e Giacomo Leone (Secondo Sacerdote, Primo armigero) che garantiscono una bella resa sulla scena, caratterizzando con oculatezza ruoli non estesi ma tutt’altro che marginali nell’economia dell’opera; i Drei Knaben (Giulia Addamiano, Francesco Beschi e Teofana Prilipceanu) registrano una performance non buona e non c’è molto da osservare se non il fatto che i tre cantanti provenienti dal Coro di Voci Bianche del Teatro Sociale non sono ancora pronti per un’esibizione solistica, probabilmente solo il contralto era effettivamente in grado di reggere la parte.

Convincente e ben eseguito il Monostatos di Lorenzo Martelli di cui si apprezzano il timbro chiaro e l’emissione tanto facile quanto controllata. Le Drei Damen (Irene Celle, Julia Helena Bernhart e Aoxue Zhu) forniscono una prova notevole tanto sotto il profilo attoriale quanto sotto quello vocale, rendendosi protagoniste di alcuni momenti di altissima intensità, come il già citato quintetto del primo atto e il finale del terzetto iniziale, l’amato «Du Jüngling, schön und liebevol» in dialogo con i soli dell’oboe. Il fatto che il trio sia sempre bilanciato e ben amalgamato ma sia possibile seguire le linee del canto di ognuna costituisce una nota di pregio.

Chiara Fiorani è una Papagena molto sicura dei suoi mezzi, perfettamente centrata nelle lunghe sequenze recitate e destinata a brillare nell’unico spazio riservatole per il canto, dove fa mostra di una vocalità flessibile e dal timbro caratteristico. Il canto è sempre ben appoggiato nei centri e acquisisce armonici nell’acuto senza rigidità e soprattutto senza perdere rotondità.

Pasquale Greco propone un Papageno vigoroso, sempre in movimento, eminentemente comico ma non macchiettistico. Il suo personaggio funziona benissimo in tutte le situazioni e con tutti i personaggi a cui viene abbinato, da Pamina a Tamino passando per i sacerdoti, pur non rinunciando mai alla propria caratterizzazione; a questo si aggiunge una resa canora di livello non comune che si fa apprezzare nei momenti solistici e negli insiemi a cui aggiunge sempre un quid in più.

Ieratico e maestoso il Sarastro di Renzo Ran, dotato di una voce scura e ben solida nel registro grave. La recitazione è sempre misurata, ma Ran infonde al personaggio quel sotteso, leggerissimo calore che si esprime nella profonda umanità del sacerdote del Sole. Degna di nota l’aria con pertichini del coro “O Isis und Osiris”, ma la sua figura cattura l’attenzione anche ne “In diesen heil'gen Hallen” e nel successivo trio.

Nicole Wacker si fa apprezzare come Astrifiammante, la Regina della Notte che domina l’immaginario della Zauberflöte con due soli ingressi. Interessante e intelligentemente cesellato il sottile patetismo nell’Andante di “O zittre nicht”, corretto l’Allegro moderato e il celeberrimo “Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen” fa sfoggio di una bella tecnica; dato che il livello già di suo è più che buono ci si aspettava forse qualche caratterizzazione in più.

Non convince il Tamino di Francesco Lucii. Il timbro è piuttosto bello e nonostante l’emissione non sia qualcosa di straordinario propone anche dei bei colori, il problema è una certa fissità nella recitazione, non si vede autentica convinzione nel gesto scenico e l’espressività ne risulta limitata. Non è un cattivo Tamino e vocalmente non è male, ma c’è della strada da fare.

Elisa Verzier è una Pamina dai tratti delicati, seppur con qualche guizzo di vivacità in special modo nei momenti con Papageno. Verzier si segnala per l’uso del legato (un esempio su tutti “Bei Männern”) e per uno strumento tanto morbido quanto identificabile anche negli insiemi. Se nel complesso non ci si allontana troppo dall’archetipo della principessa in pericolo, momenti come l’aria “Ach, ich fühl's, es ist verschwunden” dichiarano inequivocabilmente uno scavo nella personalità e nella psiche del personaggio, invero ben riuscito.

Il Teatro Sociale di Como può essere ben soddisfatto di una felicissima apertura di stagione non solo per l’esito positivo ma soprattutto per il livello della produzione che si colloca comunque sopra la media.


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