Omaggio ad Alessandro Solbiati
di Luca Fialdini
La nuova stagione di “Musica al Tempio” propone un omaggio al compositore di Busto Arsizio
MILANO 11 novembre 2023 – Il secondo appuntamento della stagione 2023/2024 di “Musica al Tempio” si concretizza in una promenade francese tra Debussy e Bonneau condotta da Francesco Rainò Dambrosio e Silvia Giliberto, rispettivamente a sassofono e pianoforte. L’incontro ruota però attorno a un altro – e italianissimo – cuore rappresentato dalla musica di Alessandro Solbiati, a cui il concerto è stato dedicato, operazione tutt’altro che oziosa perché rappresenta l’occasione per raffrontante non tanto le differenze tra due declinazioni differenti del linguaggio in termini compositivi, ma i numerosi punti di contatto tra questi. Esiste una distanza cronologica importante fra i lavori presentati, quasi annullata dalle forti similitudini che legano i due autori francesi, ed è un elemento che permette di mettere a fuoco le peculiarità di diversi percorsi che muovono dall’istanza della sospensione tonale e prevedono un investimento importante sulle possibilità coloristiche dello strumento (o strumenti) a cui si rivolgono.
Il Caprice en forme de valse di Paul Bonneau per sassofono solo che apre la serata, ad esempio, pur mantenendo un presupposto tonale lo rende piuttosto indiretto attraverso un materiale armonico in continua trasformazione e incrostato di cromatismi. Pezzo senz’altro impegnativo di cui Francesco Rainò fornisce una lettura gradevole e molto attenta a restituire la garbata musicalità di una pagina che potrebbe essere trasformata facilmente in un passo di tecnica.
La questione del linguaggio si fa più delicata con il più celebre Pour le piano perché costituisce uno dei nodi fondamentali dello sviluppo stilistico di Claude Debussy: in questa breve suite si può rintracciare la cassa di risonanza di alcune idee che hanno influenzato direttamente la penna del compositore a cavallo del passaggio di secolo, dalle grafie esili e percussive del Settecento francese (Rameau e Couperin in testa) alla suggestiva scrittura dell’amico Erik Satie, passando per la scrittura virtuosistica di stampo ancora lisztiano. L’elemento d’interesse in questo caso è rappresentato dal fatto che il riferimento più o meno esplicito a modelli preesistenti non costituisce una ripresa di convenzioni né un calco, ma la nebulosa rievocazione di fantasmi mostrati all’ascoltatore sovrapposti in trasparenza, piccoli oggetti o vocaboli ben riconoscibili che acquisiscono un nuovo significato nel trattamento che Debussy riserva loro. In questo senso è pregevole il lavoro di Silvia Giliberto nel rispettare con rigore i gesti tracciati dal compositore, proponendo una solida tecnica in grado di fornire grande pulizia nell’esecuzione e un trattamento molto riuscito dei colori, in particolare nella Sarabanda e nei momenti di maggior levità della Toccata.
Venendo al nucleo centrale e contemporaneo del concerto, il Tempio Valdese di Milano ha visto la prima esecuzione italiana – nonché europea tout court – di Élan per sax e pianoforte di Solbiati, una pagina dalle tinte ben definite che nella prima parte colpisce direttamente il nervo acustico dello spettatore con una serie di gesti davvero densi collocati nelle regioni estreme degli strumenti (in particolare del sassofono, spinto letteralmente ai limiti del registro acuto eseguibile). Ciò che colpisce è che il continuo ricorso a queste densità significative va a costituire delle sovrapposizioni di fasce sonore fra i due elementi gestite in modo tale da generare impasti sonori che verrebbe voglia di definire inediti, frutto di un accurato bilanciamento tra regioni coinvolte e tecniche impiegate. Quello all’interno di Élan è un viaggio meno tortuoso di quello che sembra preannunciare l’incipit quasi provocatorio e non mancano risvolti inattesi come l’inciso esplicitamente lirico del sassofono o il finale così mistico, giocato tutto su rintocchi e riverberi. Per stessa ammissione dell’autore si tratta di un lavoro impervio per gli esecutori, tuttavia questi si muovono con apparente disinvoltura in questo paesaggio tumultuoso e mutevole; anzi, il risultato è un’interpretazione gustosa in cui si esaltano le molte preziosità della scrittura.
Molto apprezzata anche la selezione dagli Interludi per pianoforte, nello specifico i numeri 7, 8, 9, 10, 11 e 14. Brevi pagine che vanno a costituire una sorta di diario intimo i cui riferimenti sono cancellati dalla presenza dei soli numeri, ogni singolo interludio si basa sul trattamento di gesti caratteristici – dalla giustapposizione di contrasti fra i registri, all’uso dei ribattuti, alla manipolazione di idee motiviche, fino al gioco di interferenze con i riverberi – che connotano con grande chiarezza sia il pezzo stesso sia la sua tinta (ed è pacifico che Silvia Giliberto abbia una grande attitudine nell’evocazione coloristica), dei brevi squarci attraverso i quali è possibile scorgere momenti ritagliati dal loro contesto temporale e ricollocati dalla volontà del compositore. Tutto è condotto con eleganza, in alcuni casi persino con una sottile ironia, e racchiuso in una prospettiva che tra citazioni e richiami ben si accorda con quell’idea di realtà in trasparenza.
A conclusione della serata uno di quei pezzi quasi d’obbligo per i sassofonisti, cioè la Rhapsodie di Debussy. Da non confondere con l’altra rapsodia, quella per clarinetto, esula dal novero dei titoli nazional popolari e probabilmente anche da quello delle opere maggiori: gli è stato recriminato di «non raggiunge traguardi in precedenza ignoti all'autore» e di non «aprire nuove strade alla sua invenzione», il che è pur vero ma salta a piè pari una questione fondamentale, vale a dire che titoli come questo rappresentano il consolidamento di precise stagioni della creatività di Debussy e anche solo per questo motivo costituiscono oggetto d’interesse. Ottima l’interpretazione di Francesco Rainò, piena di cura per il fraseggio e di delicatezza nella tornitura delle agogiche, mentre il pianoforte di Giliberto rimarca l’ammirevole nitidezza nell’articolazione e la suggestione del colore, due tratti che si apprezzano in modo adeguato quando si ha a che fare con l’impressionismo francese.
L’evento felicemente riuscito, cosa ancor più soddisfacente se si considera la proposta di un programma abbastanza insolito per il grande pubblico, segno che la distanza tra ascoltatore e musica d’arte è tutt’altro che incolmabile e a volte basta un po’ di sana curiosità.