L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La passione secondo Buddha

 di Stefano Ceccarelli

Il compositore cinese Tan Dun torna all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia a presentare la sua Buddha Passion, sorta di oratorio/opera dal mistico sapore orientale ispirata agli affreschi delle grotte di Mogao, nel deserto del Dunhuang. Il concerto è un successo cui il pubblico tributa un lungo applauso.

ROMA, 24 novembre 2023 – Il massimo compositore cinese vivente, Tan Dun, torna all’Accademia di Santa Cecilia per la première italiana della sua più recente creazione, Buddha Passion, di cui ha scritto non solo le musiche, ma anche il libretto (in cinese e, in alcune parti, in sanscrito, lingua sacra del buddhismo). Buddha Passion è un riuscito esempio di sincretismo musicale, che – come suggerito dal titolo – presenta la struttura di un grande oratorio: il modello cui Tan Dun guarda è Johann Sebastian Bach, celebre per i possenti affreschi della Matthäus-Passion e della Johannes Passion. L’opera di Tan Dun, infatti, è basata su episodi ispirati agli affreschi buddhisti delle grotte di Mogao, nel deserto del Dunhuang (Cina settentrionale), dove, nel corso dei secoli, sono stati costruiti ed affrescati diversi templi. Proprio da alcune delle leggende dipinte in questi affreschi Tan Dun ha tratto le storie rappresentate nei sei atti dell’opera, che culminano nel luminoso Nirvana del Buddha. Essenzialmente, il libretto è la drammatizzazione dell’illuminazione di Siddharta Gautama, ma non si concentra esclusivamente sulla vita del Buddha; gli atti II-V, infatti, rappresentano i principi basilari dell’etica buddhista, le virtù precipue per raggiungere il Nirvana, attraverso leggende esemplari connesse con il folclore cinese.

Tan Dun, per la sua Buddha Passion, immagina un mondo sonoro saldamente strutturato su un linguaggio musicale che oscilla fra il tardo-romanticismo e l’espressionismo, sul quale si librano leggere melodie orientali (alcune delle quali ispirate proprio ai manoscritti trovati nelle grotte di Mogao). Come di consueto nella scrittura di Tan Dun, l’orchestrazione è molto avanguardistica e gli strumenti sono impiegati sfruttandone tutte le potenzialità: percuoterli o pizzicarli, come nel caso degli archi, può dare vita ad un suono inaspettato. All’inizio del IV atto vi sono anche due bacinelle d’acqua, che vengono usate da due percussionisti per evocare le limpide acque sorgive presso un tempio Zen. I momenti d’apertura di alcuni atti, come il II ed il III, sembrano usciti dalla penna di Ravel: sublimi le screziature che evocano il paesaggio naturale dove abita la Cerva di nove colori, o quelle che alludono ai giochi delle figlie dell’imperatore. Tan Dun dirige la propria opera con amore, cura e precisione; l’orchestra lo segue perfettamente, creando un paesaggio sonoro ammaliante, oscillante fra il mistico ed il terreno. Qualcuno potrebbe pensare che, trattandosi di una sorta di oratorio orientale, l’ethos principale dell’opera sia quello di una riflessiva ieraticità, ma si sbaglierebbe: Tan Dun vuole rappresentare, anche musicalmente, tutte le passioni umane, sublimandole negli insegnamenti dei sutra buddhisti, mescolando stili e sonorità fra loro anche molto lontani. All’inizio del IV atto compare, per esempio, l’aggraziata Han Yan che pizzica il pip’a, uno strumento tradizionale a corde, il cui suono sfuma magnificamente negli impasti orchestrali. Nel V atto, Tan Dun inserisce anche un menestrello d’origine mongola, Batubagen, che suona il Morin Khuur (strumento tradizionale ad arco) ed esegue il canto a toni Khoomei, che produce un suono vibrato, intenso e ingolato; accanto a lui, Jiangfan Yong canta una malinconica monodia in stile tradizionale cinese, dall’intenso fascino. Nel linguaggio eclettico di Tan Dun convivono, quindi, canti tradizionali e finali roboanti alla Bernstein, o alla Gershwin, dove l’orchestra, sorretta da possenti tamburi, è sfrenata in un ritmo travolgente, che culmina nel parossismo.

Il cast delle voci è ottimo. Il soprano Candice Chung, dotata di un timbro chiaroscurale e di voce penetrante, si distingue, in particolare, nell’aria della Cerva di nove colori (II atto), dove l’interprete si libra in una melodia sospesa e densa; un gioiello che fa trapelare l’ispirazione verista nella scrittura del compositore – quest’aria, infatti, non stonerebbe certo in un’opera Puccini. Del resto, Tan Dun mostra di aver preso a piene mani dall’orientalismo musicale europeo a cavallo fra ‘800 e ‘900: un esempio su tutti, imprescindibile visto il contesto, è proprio la Turandot di Puccini. Anche il tenore Yi Li canta con voce squillante, distinguendosi nel duetto del II atto e nell’aria del taglialegna (IV). Brunita e agile è la voce di Hongni Wu, interprete della parte del Piccolo principe, cioè il giovane Siddharta (in una scena, quella di apertura del I atto, che musicalmente sarebbe piaciuta molto a Respighi). Manca da menzionare il baritono Elliot Madore, che si distingue per fraseggio e linea vocale soprattutto nella parte di Buddha. Protagonista indiscusso di quest’opera è anche il Coro, cui Tan Dun affida i canti tradizionali in sanscrito e molti momenti di raccordo nelle varie parti dell’opera: non è superfluo sottolineare, ancora una volta, che il Coro dell’Accademia (ivi compreso quello delle voci bianche) si è distinto per potenza, come pure per i passaggi più ieratici, quasi sussurrati. Al termine di un poderoso finale il pubblico scatena un applauso sonoro, cui segue una meritata standing ovation.


Vuoi sostenere L'Ape musicale?

Basta il costo di un caffé!

con un bonifico sul nostro conto

o via PayPal

 



 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.