L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Un Requiem per Abbado

 di Stefano Ceccarelli

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia organizza un concerto a dir poco sublime, dedicato alla memoria del compianto Claudio Abbado: la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi diretta da un ispiratissimo Antonio Pappano, con un cast di voci di tutto rispetto come Masabane Cecilia Rangwanasha, Elīna Garanča, SeokJong Baek e Giorgi Manoshvili. L’esecuzione è un successo.

ROMA, 5 febbraio 2024 – La storia di Claudio Abbado e dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è quella di un lungo e proficuo rapporto di successi dal 1961 al 2011, anno dopo il quale, pur avendo in programma altri concerti, non fu più in grado di dirigere a Roma (e altrove) a causa dell’acuirsi della malattia che lo strappò, infine, al piacere della musica. Onorare Abbado vuol dire onorare un mostro sacro del ‘900, non solo un musicista, ma anche un raffinato intellettuale. L’opera in tal senso migliore non può che essere proprio la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi, che peraltro Abbado dirigeva con sensibilità sopraffina. Per l’occasione, a dirigere le maestranze è il maestro Antonio Pappano.

La direzione di Pappano è a dir poco mozzafiato. L’armonia fra lui e la massima orchestra capitolina si è costruita e consolidata in quasi un ventennio di collaborazione. Le maestranze dell’Accademia, dunque, comprendono il loro direttore da un’occhiata, un minimo gesto. Pappano sceglie un’agogica sostenuta, trascinante, vigorosa, vivida. Non c’è quasi mai stacco nella prima parte, dal Requiem fino all’Offertorio, quando il Maestro lascia respirare gli interpreti veramente per poco, per poi riprendere fino al sontuoso Libera me. Si badi bene che agogica sostenuta non vuol dire mortificare i momenti più lirici, quelli celestiali, anzi; al contrario, vuol dire ravvivarli attraverso il contrasto con le sezioni più possenti, come il Dies irae, che scandisce, dopo la sua apparizione, tutta l’impalcatura dell’opera. Esempio fulgido della potenza che Pappano può far esprimere all’orchestra è, appunto, il Dies irae, imperioso, violentemente ieratico, inesorabile. Ma, ripeto, Pappano fa vivere ogni emozione della partitura, anche quelle più meditative. L’incipit del Requiem, infatti, è sussurrato appena: il direttore riesce a tenere l’orchestra udibile, ma contenuta, facendo scandire il testo al Coro, che sussurra quasi ogni nota. Magnifica anche la direzione delle arie e dei pezzi chiusi per le quattro voci: Pappano realizza il senso vero della musica che Verdi volle esprimere con questo capolavoro, il che non è la ricerca del sacro in senso trascendentale, ma il senso ultimo della vita terrena col suo turbinio di emozioni, nell’ansia agnostica, come pure il conseguente terrore, di non sapere cosa ci sia oltre. L’orchestra suona magnificamente e il Coro fa rimanere a bocca aperta per la bravura, il controllo dei passaggi, l’uniformità della resa, ma soprattutto la padronanza dei volumi: oltre al già citato, sontuoso Dies Irae, un ottimo banco di verifica è stato il Sanctus, con la fuga dei due cori, nel quale a passaggi celestiali si alternano momenti vocalmente più potenti, come pure il Libera me finale, dove il Coro ha dato ancora prova di squisita sensibilità coloristica e volumetrica.

Le voci del quartetto sono tutte ottime. Giorgi Manoshvili ha un’invidiabile linea di canto; la corda del basso è ben porta e, soprattutto, è un cantante espressivo, intenso, nel senso che valorizza ciò che canta. Non siamo, fortunatamente, di fronte al classico basso che nel Requiem verdiano deve badare a tirar fuori una voce cavernosa, testimonianza imperiosa del timore divino. Al contrario, pur non mancando certo di profondità, la voce di Manoshvili è gentilmente melodiosa, donando una certa, insolita morbidezza al «Confutatis maledictis», che riesce benissimo, con tanto di fraseggiare scultoreo.

SeokJong Baek ha una voce tenorile dal timbro morbido e granuloso (si tratta di un ex baritono); riesce molto facile nei passaggi di registro, anche se gli acuti non sono perfettamente centrati, a volte. È dotato però di un non comune senso del fraseggio, che lo porta a eseguire con nobiltà le frasi e la linea del canto. Il suo «Ingemisco, tamquam reus» è ottimo, al netto di una imprecisione in un passaggio di apertura e di uno degli acuti lievemente indietro. Baek, infatti, riesce ad avvolgere l’ascoltatore, facendo percepire l’emozione alla base dell’aria, l’autentica paura di non aver accesso alla vita eterna – il passaggio più bello, difatti, è proprio quello che prelude alla fine, sui versi «Inter oves locum praesta / et ab haedis me sequestra», quando l’interprete canta a fior di labbra, Pappano rallenta il tutto e l’orchestra disegna soffusa l’eterea melodia.

Masabane Cecilia Rangwanasha dona una performance a dir poco perfetta, mercé una sicura potenza vocale coniugata ad un timbro limpido, squillante e ad una non comune duttilità nei passaggi di registro. Fa sempre bene assieme ai colleghi; magnifici, in particolare, sono i due duetti con la Garanča, l’intenso «Recordare, Jesu Pie», dall’attacco dolcissimo, e l’«Agnus Dei», il cui iniziale passaggio a cappella è memorabile per l’interpretazione di ambedue le interpreti. L’apogeo della sua interpretazione, naturalmente, la Rangwanasha lo raggiunge nel «Libera me», nel quale esprime tutta l’accorata richiesta di salvezza, con acuti svettanti, potentissimi, e passaggi di un intenso chiaroscuro («Tremens factus sum ego et timeo»), dove mostra anche la sua abilità nel controllo delle mezzevoci.

Semplicemente sublime l’interpretazione di Elīna Garanča, la quale, pur senza togliere il giusto merito ai suoi colleghi, si staglia come miglior interprete sul palco. Non si tratta solo della qualità della sua voce, dolcemente brunita, piena e sottilmente vibrata, ma dell’eleganza con cui legge la parte, dall’inizio alla fine, cavando sempre i giusti colori. Ecco, la Garanča possiede il talento di colorare sempre, intensamente, quello che canta, facendolo con una rara e cristallina nobiltà. Semplicemente indimenticabile il suo «Liber scriptus proferetur», in particolare per l’abilità che la Garanča possiede di modulare i volumi con naturalezza. Dei duetti con la Rangwanasha si è già detto (peraltro, le due voci, così differenti, si armonizzano magnificamente bene assieme).

I quattro interpreti funzionano anche molto bene assieme, come testimoniano il «Lacrymosa dies illa» (che si lascia apprezzare soprattutto per il cuore etero, intimamente lirico) e l’«Hostias», che il tenore attacca con grazia. Alla fine del Requiem, il pubblico tributa a Pappano, ai cantanti ed alle maestranze tutte una standing ovation lunga, meritatissima, che suggella come meglio non si potrebbe questo Requiem ed il ricordo di Claudio Abbado.


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