Pastorale americana
di Luca Fialdini
Alondra de la Parra si congeda dal ruolo di direttrice principale ospite dell’Orchestra Sinfonica di Milano con un applaudito concerto al segno dell’American sound
MILANO 08 marzo 2024 – La musica degli Stati Uniti non è esattamente merce rara per i cartelloni sinfonici, tuttavia bisogna riconoscere che non è nemmeno così frequente e un programma interamente dedicato a compositori nati all’ombra del Monte Rushmoore è un piacevole hapax. Per il suo ultimo concerto da direttrice principale ospite dell’Orchestra Sinfonica di Milano, Alondra de la Parra ha selezionato tre autentiche icone della composizione statunitense: Copland, Bernstein e Gershwin. Non è una serata alla ricerca della perla nascosta, piuttosto l’atmosfera è quella di una serata non troppo formale – abito scuro, ma puoi lasciare a casa la cravatta – in cui l’orchestra ha voglia di divertirsi e far divertire il pubblico.
Il primo titolo è la suite dal balletto Appalachian Spring, probabilmente il più famoso di Aaron Copland dopo la Fanfare for the common man. In questa evanescente successione di sei quadri è evidente che il compositore cerchi una chiara conduzione delle linee melodiche, ma è ancor più evidente la grande ricerca timbrica, in particolar modo la declinazione in senso coloristico-espressivo degli archi, che mai come in questa occasione risuonano compatti, caldi, superbi nell’intonazione; la capacità di tessere una trama sonora rarefatta e quasi sovrannaturale nelle grandi divisioni è una nota di pregio. Davvero notevoli anche gli interventi degli ottoni, che soprattutto nei quadri iniziali sono i veri portatori di quell’“American sound” così ben riconoscibile. Molto bene gli incisi ritmici nervosi della sezione Fear in the Night, Day of Wrath, Moment of Crisis, ma i passi più suggestivi sono senza alcun dubbio gli scorci pastorali e i grandi momenti corali, in cui spicca per intensità il conclusivo Lord's Day, molto simile a un inno chiesastico nel carattere. Efficace anche il modo di de la Parra di sottolineare la circolarità della suite – per non dire effettiva Ringkomposition – al momento del ritorno del tema bucolico del Prologo dopo tante avventure dell’anima. In breve, la suite da Appalachian Spring fornisce già in prima battuta la cifra complessiva del concerto: un’Orchestra Sinfonica di Milano in grande spolvero e per di più in perfetto dialogo con la sua direttrice.
Il punto più atteso del programma, inutile negarlo, sono le Danze sinfoniche da “West Side Story” di Bernstein: pirotecnico, a modo suo eccessivo, foriero di un atteggiamento dell’orchestra meno statico rispetto a quello cui siamo ancora abituati (dallo schiocco di dita al «mambo»), questo caleidoscopio dei numeri più efficaci e conosciuti di West Side Story è l’occasione per ammirare l’ottimo controllo di Alondra de la Parra e una Sinfonica di Milano con i ranghi quanto mai coesi, con ogni sezione che dà veramente il massimo e il risultato è una fusione unica e seducente dell’intera macchina orchestrale. Il comparto percussioni è piacevolmente sovraffollato – cinque percussionisti più Viviana Mologni ai timpani – ed è pacifico che in questo contesto la percussione abbia un ruolo fondamentale nel felice esito che l’esecuzione ha registrato. Assolutamente maiuscole le prove dei molti soli che si affacciano in queste pagine, a cominciare da Luca Santaniello e Tobia Scarpolini; a questo proposito, davvero eccellente il passo dei molti soli che apre Somewhere, il secondo movimento. In questa interpretazione non brilla solo l’esplosione di follia del Mambo, c’è grandissima cura per ogni dettaglio, ad esempio l’ingresso nitido della testa del soggetto in Cool, la fuga jazzistica, o la connotazione drammatica (e anche drammaturgica, a dire il vero) del cupo intervallo di nona nelle battute finali, mi bemolle contro il rintocco grave di fa. Tutte le cesellature che Bernstein delinea nella partitura sono rispettate con il massimo scrupolo ma senza alcuna pedanteria, anzi, nel risultato esecutivo tutto scorre in modo davvero naturale, esattamente come il gesto danzante di de la Parra.
A chiudere questa breve promenade statunitense non poteva mancare George Gershwin, presente con il poema sinfonico («balletto rapsodico», secondo l’autore) An American in Paris, che inizia proprio con una passeggiata lungo gli Champs-Élysées. L’allure da vecchia Hollywood e l’ostentata programmaticità – basti pensare al traffico urbano evocato da ben quattro trombe da taxi – sono impiegati per non porre in eccessivo risalto le molte innovazioni contenute in questa rievocazione del soggiorno parigino e non si parla di piccolezze: nel 1924 Gershwin non aveva competenze sufficienti per scrivere la parte orchestrale della Rhapsody in Blue e dopo soli quattro anni si presenta con un poema sinfonico dall’orchestrazione molto articolata in cui dimostra pure di aver interiorizzato a modo suo le esperienze di Ravel e Stravinskij. La direzione di de la Parra si concede alcune libertà nelle agogiche ma sempre nel pieno rispetto del senso della paritura, le irregolarità ritmiche sono rese ancor più incisive, il colore orchestrale è trattato con gusto impeccabile e le infiltrazioni di note blu poste in giusto risalto; a questo si deve aggiungere un atteggiamento visibilmente divertito dell’orchestra, che forse apprezza la possibilità di uscire dal repertorio sinfonico più usuale per le nostre latitudini.
Prima di congedarsi dal pubblico entusiasta, Alondra de la Parra regala un ultima scheggia di follia con la ripresa del Mambo di Bernstein, un ultimo fuoco d’artificio che chiude un concerto di alta levatura e perfetta conclusione simbolica dell’incarico come direttrice principale ospite.