Poetica cosmopolita
di Mario Tedeschi Turco
Debutta in Italia il raffinato Requiem di Andrew Lloyd Webber in una riuscitissima proposta della Fondazione Arena di Verona con Ryan McAdams sul podio.
VERONA, 19 aprile 2024 - Eccellente intrapresa, quella della Fondazione Arena nella sua stagione al chiuso, al Filarmonico: la prima esecuzione italiana del Requiem di Andrew Lloyd Webber, composto nel 1985 ed eseguito la prima volta nel febbraio di quell’anno sotto la direzione di Lorin Maazel (solisti Placido Domingo e Sarah Brightman), che per questo brano aveva particolare ammirazione, avendolo poi ripreso nel 2013 in una delle poche repliche concertistiche. Si tratta di un’opera particolarmente impegnativa dal punto di vista esecutivo, dato l’organico imponente ma insolito che richiede (orchestra in cui gli archi sono senza violini; organo, sintetizzatore e pianoforte, coro con voci bianche, nonché percussionisti ad alternarsi su oltre una ventina di strumenti diversi), nella quale riveste particolare importanza la voce solistica del boy-soprano affiancato a tenore e soprano ‘regolari’, in una tessitura magari non trascendentale ma certo da modulare con grande attenzione sia per peso sonoro che per intonazione. Sul paradigma lirico/meditativo del Requiem di Fauré, il pezzo di Lloyd Webber si articola su dieci sezioni, a loro volta con suddivisioni interne scandite sul palinsesto liturgico, nelle quali il compositore dà libero piglio a una serie di soluzioni stilistiche diverse: c’è l’impianto accademico di marca inglese, quella della linea Bantock-Warlock, passando da Delius o Vaughan-Williams, sostanziato di altissimo artigianato di struttura, di palette cromatica varia, di effetto discorsivo fluido. Ma puoi trovare anche meticciati inaspettati tra jazz e rock (nell’Hosanna), momenti di melos pucciniano (la cadenza su tre note discendenti sulla parola «requiem», alla seconda intonazione nel Pie Jesu, è modellata sull’uguale scansione ritmico-melodica, e sul relativo effetto conclusivo della frase, della parola «divina» [«Addio stirpe divina»] nel terzetto di Ping, Pong, Pang, al n. 8 dell’atto II di Turandot), nonché un gesto complessivo di saturazione dei parametri sonori in parte di marca “Giovane Scuola”, ma in parte debitrice altresì al concetto di «wall of sound» del produttore soul/pop/rock Phil Spector. Si tratta insomma di un’opera di ragguardevole valore, raffinatissima, cosmopolita, di espressività immediata ma di costruzione singolarmente elegante e ricercata, in cui i modelli pur evidenti vengono rivissuti con taglio originale. Plauso dunque alla Fondazione areniana per averne offerto il debutto nazionale, anche perché l’esecuzione – paragonata alle due edizioni discografiche dirette da Maazel nel 1985 e da Domarkas nel 1989 – è stata di alto livello, con la direzione di Ryan McAdams attentissima ai dettagli, di squisita cantabilità, perfetto rigore e calcolatissima varietà poetica (austero l’Introitus,limpide le linee di contrappunto fugato nell’Offertorium, di squassante giubilo l’Hosanna, di assorto lirismo il Pie Jesu), coadiuvato da un’orchestra in ottima forma e da un doppio coro all’altezza (SATB titolare + voci bianche ‘A.Li.Ve.’, rispettivamente diretti da Roberto Gabbiani e Paolo Facincani), cui si può imputare solo di aver fatto traudire qualche problema nei registri acuti femminili, cosa peraltro non nuova nel pur valido collettivo veronese. Un valore assoluto si è aggiunto grazie alle prestazioni di due solisti, il tenore Enea Scala, di singolare potenza drammatica, e il soprano Gilda Fiume, che ha fatto valere la sua tecnica superiore non disgiunta da una totale immedesimazione nella parola liturgica, raggiungendo sommità estatiche nell’intima fusione tra vocalità e testo, in questo modo superando di gran lunga le soliste presenti nelle incisioni citate. L’apporto del giovane Lorenzo Pigozzo, nella tessitura arcaizzante della sua parte di soprano ‘bianco’, se non è stata propriamente impeccabile per intonazione (parce iuvenibus…), lo è stata senz’altro per impegno e persino per una certa qual autorevolezza di portamento patetico.
La serata era stata aperta da un’esecuzione del poema sinfonico di Rachmaninov L’isola dei morti. McAdams e l’orchestra areniana ne hanno offerto un’esecuzione pienamente appagante, sintonizzata sull’elemento tenebroso (ottimi i violoncelli e i contrabbassi), opportunamente mossa all’interno dalle voci secondarie di legni e ottoni che si sono fatti particolarmente apprezzare per nitore di timbro e precisione di attacco, così che l’inciso ricorsivo dal Dies irae, nella seconda parte del brano, ha rilevato nello spazio sonoro esattamente quell’ombra lunghissima di irresistibile decadentismo che certo, nel Rachmaninov del primo decennio del 900, è cifra da porre sempre in primo piano.
Molti applausi del pubblico, al termine del concerto, e bis concesso con la ripetizione del Pie Jesu.