Due gloriosi insuccessi
di Stefano Ceccarelli
Il maestro Tugan Sokhiev dirige un apprezzatissimo concerto all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia: il Concerto per pianoforte n. 2 in sol minore op. 16 di Sergej Prokof’ev e una suite da Il lago dei cigni di Pëtr Il’ič Čajkovskij. Solista del concerto è stato Haochen Zhang, che ha conquistato il pubblico romano al suo debutto.
ROMA, 4 maggio 2024 – Fra Sergej Prokof’ev e Pëtr Il’ič Čajkovskij c’è una certa affinità: seppur con linguaggi certamente diversi, l’uno modernissimo, l’altro più intimamente romantico, Prokof’ev e Čajkovskij sono legati da una genuina facilità alla melodia, da un’elegante, elaborata strutturazione della frase musicale, ma, forse, soprattutto, da un velo di malinconia – marchio di fabbrica di molta musica romantica russa.
Tugan Sokhiev torna a dirigere l’orchestra dell’Accademia proponendo proprio due capolavori di compositori della sua terra. Si inizia, nel primo tempo, con il Concerto per pianoforte n. 2 in sol minore op. 16 di Prokof’ev. Opera giovanile, riscritta dopo che l’originale partitura andò tragicamente distrutta in un incendio, il Secondo concerto coniuga una bellezza melodica ipnotica ad arditezze puramente sonore, come pure ad effetti magnifici, nel riverbero fra strumento e compagine orchestrale. Il I movimento, composito nell’agogica, è coerentemente basato su una melodia ipnotica, sospesa, seducente. Ad interpretare il concerto è Haochen Zhang, tra i talenti più affermati della sua generazione. Zhang possiede una morbidezza di tocco che si lega, assai bene, ad una straordinaria velocità esecutiva, doti perfette per leggere i fulminei passaggi e le corpose cadenze di cui il concerto è costellato. Sokhiev mette già in mostra le sue doti direttoriali: gesto minimale, netto, ma effetto prorompente, non solo sul piano ritmico, ma anche nell’architettura generale. È un direttore, Sokhiev, dotato di notevole sensibilità cromatica, al quale non spiace un suono robusto e verticale. Come dicevo, il I movimento ha un sapore ipnotico: Sokhiev propone nette campiture cromatiche, sulle quali si staglia il tocco delicato di Zhang, veloce, agile, ma pure musicale, non meccanico, insomma. Del resto, molto del carattere del I movimento si trova in frasi ricche di colori, quasi sussurrate dal pianoforte. La cadenza è fraseggiata con ampi respiri, mentre l’interprete si muove rapido sulla tastiera. Squisito, rapidissimo lo Scherzo, che dà modo a Zhang di mostrare le sue doti puramente virtuosistiche, con effetti percussivi di mirabile esito. La mano poderosa di Sokhiev si vede nell’attacco all’Intermezzo, il III movimento, dove Prokof’ev si rammenta di pagine di Musorgskij e fa stagliare un magniloquente pianoforte su pesanti accordi orchestrali: Zhang imprime energici passaggi, fino a che la scrittura non si stempera, ancora, in una dimensione sospesa, quasi ambigua. Il finale è rutilante, nel più puro stile modernista russo (carissimo, pure, a Šostakovič). Zhang suona con splendida energia, rendendo giustizia all’indicazione di Allegro tempestoso; ma il finale si condisce di variazioni ritmiche, passaggi chiaroscurali, tutti colti da Zhang, che si appoggia ad un suono orchestrale ottimamente condotto da Sokhiev. Il finale è una girandola spumeggiante, che strappa calorosi applausi. Zhang, omaggiato dal pubblico, regala una versione pianistica della Chanson bohème che apre il II atto della Carmen di Bizet (a naso – anche se sarebbe meglio dire…a orecchio – dovrebbe essere la trascrizione, brillante e virtuosistica, di Moritz Moszkowski).
Nel secondo tempo, Sokhiev propone la propria suite dal Lago dei cigni di Čajkovskij. Le caratteristiche già ammirate nella direzione di Prokof’ev sono espresse al massimo grado in Čajkovskij. Sokhiev ispessisce il suono, lo rende netto, pieno, rendendo ben udibili le compagini principali (archi e fiati, über alles); il suo modo di fraseggiare, così intenso, a tratti drammatico, è tipico della scuola russa, squisitamente interpretata da un suo figlio d’arte. Indimenticabile è l’attacco dell’oboe nella scène n. 10, sorretto dal glissando dell’arpa, che scontorna una delle melodie più malinconiche mai composte; Sokhiev, nei momenti più lirici, rallenta dolcemente, ma in quelli puramente coreutici sa donare uno slancio anche vigoroso, come nella Valse (n. 2). L’abilità di creare ritmo grazie ad un’agogica millimetrica si apprezza nella Danse des cygnes, in particolare nell’Allegro moderato; sublime, a dir poco, la direzione del Pas d’action, con il violino di Andrea Obiso che intona una melopea ingentilita dall’arpa. Direttore e maestranze sono in stato di grazia, come dimostrano le danze di carattere: la Czardas, la danse espagnole, la danse napolitaine e la Mazurka scorrono con festosa piacevolezza. Il finale è indimenticabile, soprattutto per l’energia con cui Sokhiev scatena l’orchestra per poi rarefarla al momento della morte del Principe e di Odette. Il pubblico va in visibilio. Sembra incredibile leggere, sul programma di sala a firma di Carla Moreni, che due opere così amate ancora oggi abbiano debuttato con due clamorosi insuccessi.