Bruckner prosciugato
di Mario Tedeschi Turco
Pur nell'indubbia qualità dell'Orchestre des Champs-Elysées e del suo direttore, lascia perplessi il taglio intepretativo impresso da Philippe Herreweghe alla rara prima versione dell'Ottava di Bruckner.
VERONA, 29 settembre 2024 - È giunto al termine il «Settembre dell’Accademia» al Filarmonico di Verona, con l’attesissimo omaggio ad Anton Bruckner nel secondo centenario della morte: l’esecuzione della prima versione dell’Ottava sinfonia nell’interpretazione di Philippe Herreweghe a capo dell’Orchestre des Champs-Elysées. La sala era gremita per una serata di quelle che ogni persona di cultura sapeva non dover mancare, essendo l’immersione dal vivo nell’odissea sonora bruckneriana momento estetico non certo tra i più frequenti, nella pur vivace vita musicale cittadina. Toccherebbe dunque usare l’odiatissimo termine “evento” con qualche ragione, nella contingenza specifica, anche perché l’esecuzione era appunto affidata a un direttore e a un ensemble di caratura internazionale. Herreweghe, come noto, è direttore particolarmente versato nell’interpretazione della musica rinascimentale e del barocco – con particolare predilezione per Bach - e, di quel repertorio, massimamente esperto soprattutto nell’ambito liturgico (chi scrive, per quel che vale, reputa il suo Jesu, meine Freude una delle gemme più splendenti dell’intera discografia): bene, di quell’arte austera ad un tempo e sacrale, la quale presiede alle sue esecuzioni bachiane, ci pare che assai poco in questo Bruckner sia rimasto, se non in taluni aspetti di superficie quali i tempi stringati, la secchezza del timbro, la trasparenze delle linee contrappuntistiche. Quanto però di questi parametri esecutivi – che al tardo barocco si attagliano benissimo - sia davvero rivelatore della poesia bruckneriana ci risulta assai arduo dire, né sinceramente pensiamo che i dettami della prassi esecutiva storicamente informata, di che orchestra e direttore sono esponenti tra i più rigorosi, sia la strada migliore per rendere le infinite iridescenze, i bagliori improvvisi, i clangori oltreumani, le tensioni armoniche pre-impressionistiche che sostanziano il testo dell’Ottava e, in generale, lo stile del suo autore. L’orchestra degli Champs-Elysées, con i suoi fiati d’epoca e gli archi con pochissimo vibrato, suona ben vero con eccezionale affiatamento, ma i piani sonori sono apparsi sbilanciati, con archi sovrastanti, attacchi degli ottoni non sempre impeccabili, tromboni e tuba contrabbassa dall’emissione talora difficoltosa: ne hanno risentito soprattutto i momenti più francamente epici della partitura, come nell’Allegro moderato la fanfara ascendente delle trombe nel punto centrale dell’esposizione, mistica figura di Elevazione, che si è persa in un certo grigiore complessivo, la dinamica eccessivamente ristretta in un generico forte o mezzo forte a dominare l’intera esecuzione con una fissità decisamente eccessiva. Ottima, per contro, la tela dei violini nel primo tema del movimento lento, con lo sviluppo successivo reso austero e spoglio da tutti gli archi in forma di corale. Ma tutta l’esecuzione è stata segnata da questo tipo di fluttuazione espressiva, laddove evidentemente per Herreweghe e la sua orchestra l’obiettivo principale da cogliere era quello del nitore assoluto, anche a costo di alleggerire e omogeneizzare gli spessori fonici i quali tuttavia, intesi come gesto epico, come tensione spirituale, come astrazione idiosincratica della drammaturgia wagneriana, infine come cifra estetica fondante il sinfonismo di Bruckner (la contrapposizione tra luce e ombra, lo scontro tra fascinans e tremendum¸ come ricorda Alberto Fassone), ci pare dovrebbero essere invece rilevati al massimo. E lo si è fatto in tante maniere diverse: con il romanticismo estremo di Karajan, con l’altissima tensione di Jochum, con le grandiose campiture di Wand, con la ricchezza della logica di Celibidache oppure, ai nostri giorni, con quella del suo allievo Rémy Ballot, quest’ultimo miracoloso anche per intensità lirica. Herreweghe, con una indiscutibile coerenza rispetto alla sua formazione, ha pensato invece alla sottrazione, alla levità del decorso strutturale quale messa in forma ideale del mélos e del contrappunto, senza concessioni di alcun tipo né al solenne, né all’elegiaco, né al lirico, né al sublime, e anzi con una deliberata freddezza chirurgica che, se da una parte ha messo in luce la logica polifonica della partitura, dall’altra ha sacrificato tutto quanto di grandioso, monumentale e profondamente mistico è pur sempre formalmente essenziale nella scrittura del compositore. Non siamo rimasti affatto convinti dell’intima necessità di un tale tipo di lettura, offerta per un autore del tardo ottocento romantico: ma che essa si sia realizzata con coerenza e con magistero tecnico di alto profilo rimane indubbio.