La farfalla di Wellber
di Giuseppe Guggino
In occasione del centenario della scomparsa di Giacomo Puccini il Massimo di Palermo ripropone l’allestimento del 2016 di Madama Butterfly per la regia Nicola Berloffa. La ripresa si segnala per la lettura musicale di grande personalità firmata da Omer Meir Wellber.
Palermo, 16 febbraio 2024 - Dopo il recente Rigoletto la stagione d’opera del Teatro Massimo continua curiosamente a battere la strada della ripresa degli allestimenti tra i meno convincenti degli ultimi anni, puntando per Madama Butterfly sullo spettacolo coprodotto con il Macerata Opera Festival e già visto sul palcoscenico palermitano nel 2016. Intrigante è la prospettiva del regista Nicola Berloffa di trasporre la vicenda nel Giappone del secondo dopoguerra, ferito dalle bombe nucleari e dilaniato dallo scontro fra cultura orientale e occidentale. Nella declinazione dell’idea di fondo nell’infelice impianto scenico fisso di Fabio Cherstich difetta però il senso del teatro, sicché fra controscene, andirivieni di marines, proiezioni di pellicole americane del secondo dopoguerra e trovate anticonvenzionali (una su tutte l’arrivo della nave di Pinkerton appreso alla cabina telefonica) gli snodi drammaturgici che si vorrebbero sottolineati finiscono paradossalmente depotenziati.
Esattamente speculare è il discorso sulla lettura radicale di Omer Meir Wellber che sceglie sin da principio tempi brucianti, tinte forti e sonorità violente, articolando il disincantato discorso musicale con innegabile coerenza, forte di una compagine orchestrale in ottima forma, quasi irriconoscibile rispetto alla prova nel recente Rigoletto. Poco è concesso al lirismo, sicché il duetto del primo atto è forse la pagina più sacrificata da scelte agogiche tanto estreme, che nella Butterfly di Maria Agresta, molto poco liberty e decisamente sbilanciata sul tragico sin dal principio, trova interprete ideale. Il soprano campano, che registra un buon successo personale, si segnala principalmente per la consapevolezza dell’approccio al personaggio, reso con buona efficacia teatrale. Buona la prova anche di Silvia Beltrami che è una Suzuki apprezzabilmente sonora e partecipe.
Sul versante maschile risulta meno convincente il Pinkerton di Jonathan Tetelman che possiede un luminosissimo e ben proiettato registro acuto a cui fa da contraltare registro centrale e grave decisamente meno sonoro, in cui l’emissione si sporca con un poco piacevole effetto vibrato. Per contro l’interessante corda baritonale di Simon Mechliński, alle prese col canto di conversazione di Sharpless, si rivela ben assestata e omogenea su tutta la gamma, oltre che capace di un’ottima realizzazione scenica del console statunitense.
Complessivamente buono l’apporto dei comprimari, fra cui ricordare Massimiliano Chiarolla (Goro), Italo Proferisce (Yamadori), Cosimo Diano (Yakusidé) e Nicolò Ceriani (Bonzo), così come puntuale è l’apporto del Coro, preparato da Salvatore Punturo, chiamato dalla regia a intonare dal fondo della sala il ben noto preludio a bocca chiusa del terzo atto.
Sbrigativi gli applausi finali, nonostante la sala fosse ben gremita.