Idomeneo tra i flutti
di Antonino Trotta
Idomeneo di Mozart va in scena per la prima volta al Carlo Felice di Genova: se l’allestimento di Matthias Hartmann, pur contraddistinto da un segno visivo di sicuro impatto, si avvicina con prudenza al testo, il versante musicale riserva ben altre soddisfazioni. Ottimo il lavoro in buca di Simone Ori e quello sul palcoscenico dell’affiatato parterre, in cui brillano le prove di Cecilia Molinari e Antonio Poli.
Genova, 25 febbraio 2024 – Non ne sbaglia una, ultimamente, il Carlo Felice di Genova che, dopo la bellissima Madama Butterfly di gennaio, importa ancora dalla Scala di Milano un altro allestimento, sontuoso e di grand’effetto. La scelta è ricaduta ora sull’Idomeneo di Mozart, tra i capolavori assoluti del genio salisburghese, che sbarca per la prima volta in assoluto a Genova e si affida alle cure di una squadra di specialisti per conquistare già al pubblico al primo appuntamento.
La regia è quella di Matthias Hartmann, ideata per il tempio milanese nel 2019: oggi come allora, tutta incentrata sull’onnipresenza del dio Nettuno, pronto a insidiarsi qui e là nella narrazione coi suoi sinuosi ballerini-flutti che incombono sui personaggi con un fare che ben si confà agli spiriti che popolano la mitologia greca; oggi come allora, in gran parte affidata al generosità e al talento del cantante/attore, chiamato a cimentarsi con pose plastiche in proscenio ed entrate e uscite aritmeticamente collegata a code o da capo. La scena di Volker Hintermeier, fissa e rotante, metà relitto e metà testa di Minotauro – perché no, già che siamo a Creta –, però, è davvero bella – conchiglie a parte, buttate lì sul palcoscenico come su di una tavola estiva apparecchiata solo per far orrore a Csaba –. Illuminata, poi, con la dovuta maestria – le luci sono di Mathias Märker e Valerio Tiberi –, ammanta l’allestimento con quell’aura di gran spettacolo che, in fondo in fondo, non è, creando così una percezione illusoria in cui, però, si scivola volentieri.
Anche perché, se sul palco il dramma latita, o si palesa in maniera compassata, in buca si avverte con più furore e pathos. Simone Ori, al debutto con l’orchestra dell’Opera Carlo Felice – dove è già direttore musicale di palcoscenico – nell’ultima recita di una produzione affidata e affilata già da Riccardo Minasi, guida le masse con polso deciso e sonorità asciutte e taglienti. Assai moderna nel taglio delle sonorità, delle agogiche, del fraseggio istintivo e frastagliato, la lettura di Ori si fa apprezzare per il nitore del tessuto orchestrale, per la perizia con cui emergono i vari dettagli strumentali, per il nerbo con cui la buca sostiene il materiale drammatico dell’opera. Finissimo, infine, il basso continuo affidato a cembalo e cello (Sirio Restani e Antonio Fantinuoli) e buona la prova del coro, in un titolo dove il contributo è notevole, del Teatro Carlo Felice, istruito dal maestro Claudio Marino Moretti.
Il cast schierato riserva non poche soddisfazioni. Ci si spella le mani per l’Idamente di Cecilia Molinari: attrice coinvolgente e coinvolta, mezzosoprano di rango per tecnica e controllo vocale, artista sensibile e sempre ben calibrata, dà vita a un personaggio di grande presa, eroico e delicato al tempo stesso. E lo fa senza mai perdere di vista la bontà del canto, ovunque tornito in splendide dinamiche e agilità in punta di fioretto, né l’incisività del testo, mai ridotto a mero sostegno del suono e sempre scolpito in un fraseggio che conferma sensibilità e classe. Pur mancandogli nei passaggi di bravura quella vertigine virtuosistica che qui più che mai serve per trasformare l’uomo in mito, Idomeneo raccoglie i più calorosi consensi da parte del pubblico per le eccellenti qualità dello strumento messe a servizio del protagonista: con timbro statuario, emissione sempre a fuoco e sempre a segno, porgere vibrante, schietto e teso, e pure smorzature non di poco conto, Antonio Poli modella il re di Creta dando ampio risalto alle filigrane emotive della sua anima. C’è poi Benedetta Torre, che a Ilia dona dolcezza infinita, ora con velluto sopranile morbido e carezzevole, ora col legato che ne armonizza il fraseggio, ora con la figura angelicata che completa l’incanto. Il prode Arbace è Giorgio Misseri, che affronta il ruolo con la gagliardia di chi non teme le vette del pentagramma – anzi, ivi pianta la bandiera – e si ritaglia, specie con la prima aria, una parentesi di elettrizzante seppur perfettibile tecnicismo. Lenneke Ruiten paga caro il confronto col resto del cast, che padroneggia la lingua e l’arte del belcanto: il fraseggio non eccelle per scavo della parola o varietà d’accenti, gli acuti risuonano un po’ stridulini, i gravi privi di polpa; la sua Elettra, insomma, manca assolutamente di forza, e pure la fantasmagorica invettiva finale scorre via con l’innocenza di un’aria di sorbetto. Eccellenti il gran Sacerdote di Blagoj Nacoski e la Voce di Nettuno di Ugo Gagliardo, corretti i due cretesi e i due troiani (Lucia Nicotra, Maria Letizia Poltini, Damiano Profumo, Franco Rios Castro).
Il balletto finale (Balletto Fondazione Formazione Danza e Spettacolo “For Dance” ETS con coreografie di Reginaldo Oliveira) accompagna l’opera alle ovazioni finali, calorosamente tributate da un pubblico numeroso. Beatrice di Tenda ci aspetta al varco e, anche per quest’ennesimo titolo del Carlo Felice, le premesse sono tra le migliori.