Tre diamanti per Mozart alla Scala
di Francesco Lora
Non solo la storica regìa di Giorgio Strehler, ma anche e soprattutto la direzione di Thomas Guggeis e il canto di Jessica Pratt rendono memorabile la ripresa della Entführung aus dem Serail al Teatro alla Scala: sala stracolma, melomania riattivata e trionfi personali.
MILANO, 10 marzo 2024 – Secondo l’opinione comune, la recensione ideale sarebbe quella della prima recita, in modo tale che il lettore sia subito informato sul pregio dello spettacolo e che il teatro ne riceva pubblicità utile alla vendita di più numerosi biglietti. Della Entführung aus dem Serail di Mozart andata in scena alla Scala, dal 25 febbraio al 10 marzo, ci si riferisce però qui addirittura all’ultima delle sei recite. Forse non è un male, alla luce di due considerazioni che tengono a bada il buonsenso del quale sopra: con un’inconsueta partecipazione di melomani motivati a seguire più di una recita, infatti, molto s’è discusso sull’inesaustibile rifinirsi dello spettacolo a ogni nuova levata di sipario, e il massimo teatro milanese non ha certo dovuto attendere le prime recensioni per riuscire a riempire una sala invece stracolma ed entusiasta già dal primo momento. Pubblicità bastano a farla il nome di Wolfgang Amadé – piuttosto che un suo capolavoro mai stato popolare in Italia – e soprattutto lo storico allestimento con regìa di Giorgio Strehler e scene e costumi di Luciano Damiani. Dal 1972 a oggi lo si è visto alla Scala per ben cinque cicli di rappresentazioni, mai scalzato da altre letture, e tuttavia proprio in tale teatro esso patisce qualche difficoltà di nitida fruizione. A renderlo inconfondibile con l’eleganza di una tra le più sottili rievocazioni dell’ultimo Settecento, difatti, è il particolare gioco di luci e ombre: nelle parti dominate dall’azione, gli interpreti si muovono a tre dimensioni nel cuore di una scena generosa di colori, mentre in quelle dominate dalla musica, essi avanzano a un proscenio buio e divengono così nere silouettes su fondo celestino. Il problema è che l’allestimento fu inizialmente concepito per l’attuale Haus für Mozart di Salisburgo, e che per apprezzare quel gioco di luci e ombre la visione deve essere contenuta, frontale, stretta e bassa: tutto il contrario di ciò che avviene dalla maggioranza delle poltrone nell’enorme, curva, alta sala all’italiana della Scala, dove le silouettes, perduta la giusta angolazione, si mutano spesso in illeggibili corpi brunastri contro un fondo altrettanto scuro. La ripresa registica a cura di Laura Galmarini, se non altro, è accurata e scorrevole, più di quanto non sia avvenuto negli ultimi venticinque anni con le regolari e trasandate riproposte – non solo alla Scala – delle Nozze di Figaro e di Don Giovanni. Eppure nei più giovani – per esempio quelli che hanno iniziato ad andare all’opera solo negli scorsi anni Novanta, come chi scrive – sale il sospetto che ben altra puntigliosa individualità di recitazione fosse messa a punto sotto la personale guida di Strehler: sembra pur sempre di assistere qui, in altre parole, alla venerata ostensione di un capolavoro del passato, nel quale possono moltiplicarsi sterili gags, anziché a un impossibile aggiornamento di mano dell’autore, nel quale le sfumature conservino efficacia. Discorso delicato, e non sarà un caso che simili scrupoli s’accendano – come non avverrebbe con altri – a proposito di un lascito strehleriano celebrato e longevo, ma viepiù sfuggente.
Si diceva che questa ripresa dell’Entführung ha attirato per più di una sola recita spettatori qualificati, infervorati dal vicendevole passaparola. Principale oggetto del merito: il concertatore Thomas Guggeis, trentenne, già assistente di Daniel Barenboim, direttore musicale all’Opera di Francoforte, non nuovo al pubblico italiano né alla Scala, ma ancora da meglio inquadrare artisticamente e comunque al debutto operistico a Milano. È la persona, insomma, dalla quale possono venire sorprese: come quella di vederlo rimanere nella buca d’orchestra durante gli intervalli, per confrontarsi con i professori, scambiare consigli e non perdere il destro di ultimi ritocchi al lavoro svolto insieme. Il risultato è sbalorditivo, dal piglio solistico degli strumenti concertanti – sono ben quattro nella colossale aria di bravura «Martern aller Arten» – fino alla millimetrica coesione dell’insieme (incluse le sferraglianti turcherie): di rado s’è ascoltata l’Orchestra della Scala esibire a così piene mani la propria gamma di colori all’italiana, ma insieme accompagnarla con una trasparente setosità degna di muovere a invidia la Staatskapelle di Dresda. Stravince, dunque, la conduzione del discorso musicale, e a un tale livello poetico e tecnico da farsi garante di quello teatrale, spontaneamente assorbito per esubero di bellezza. Resta un unico, incomprensibile bemolle: l’indecente taglio della squisita, amorosa aria «Wenn der Freude Tränen fließen», quella che – con ragionato contrasto – precede il quartetto finale dell’atto II e andrebbe invece tutelata come rara avis, giacché costituisce un modello di cantare alla tedesca nella fase storica ove si cercava di definire e istituire un genere operistico nazionale. Taglio incomprensibile – si diceva – anche poiché la parte tenorile di Belmonte, cui appartiene, è sostenuta da un Daniel Behle ideale quanto a nobiltà di porgere e affettuosa virilità: l’annunciata indisposizione, anzi, passa affatto inosservata. Bene anche il soprano Jasmin Delfs, come Blonde, e l’altro tenore Michael Laurenz, come Pedrillo, sia per le oneste doti canore sia – a maggior ragione – per la brillantezza scenica. Quest’ultima è condivisa da un sommo animale da palcoscenico, il basso Peter Rose, al cui Osmin difettano tuttavia le sonorissime note gravi d’ordinanza. Già noto al pubblico italiano come regista d’opera, Sven-Eric Bechtolf si presenta questa volta come attore, nei panni di Selim, e incuriosisce per l’inedita voce affilata, nervosa, scabra, secca. Ecco infine il terzo diamante dello spettacolo, da ammirare tra Strehler e Guggeis: il sopranissimo Jessica Pratt, che alla parte della prima donna, Konstanze, reca una vocalità insolitamente piena, vivida, radiosa, timbrata, pregnante, espressiva, e con un tale possesso dell’ultimo grado di virtuosismo da far sembrare esercizi sulle cinque note le temibili escursioni, in emissione legata, al registro sopracuto; in «Martern aller Arten» giunge a riaprire uno dei due tagli previsti da Mozart stesso, onde non chiedere l’impossibile a una gola umana: riapra anche l’altro, e saranno terminate le parole d’ammirazione.